Articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo
È quasi la regola: nella propria autopercezione, in molte culture nazionali esistono dei miti di genere vittimistico. Il proprio paese è stato defraudato di qualcosa, di norma da altre potenze e popoli, magari in occasione di rivolgimenti bellici o geopolitici. Nel caso della nostra storia, abbiamo avuto l’idea della vittoria mutilata, agitato da D’Annunzio e dagli altri nazionalisti proto-fascisti subito dopo la fine della Prima guerra mondiale: secondo questa narrazione, gli alleati ci avrebbero privati dei giusti, meritati compensi territoriali lungo la frontiera orientale - un’idea che ha contribuito alla storia tragica del nostro confine col mondo slavo per gran parte del Ventesimo secolo.
Dopo la Seconda guerra mondiale, sempre in Italia, una parte della sinistra marxista coltivò invece il mito della Resistenza tradita, quello secondo il quale i rivolgimenti bellici avrebbero dovuto condurre a una trasformazione sociale radicale, contro la quale forze conservatrici più o meno oscure si sarebbero mosse. In questo caso, anche da questo genere di idea, nella seconda metà degli anni ‘60 presero forma le pulsioni che poi spinsero alcuni gruppi verso il terrorismo, nella convinzione di essere i nuovi partigiani, quelli destinati a completare ciò che era stato interrotto nella primavera-estate del 1945.
Di recente, Ozan Ozavci, storico turco che lavora all’Università di Utrecht, ha analizzato per The Conversation uno di questi miti. Riguarda il suo paese, la Turchia, e oggi si mescola a voci di ogni genere circa il futuro imminente di questo paese-chiave degli equilibri geostrategici di mezzo mondo.
Il caso turco
Esattamente un secolo fa, il 24 luglio 1923, veniva firmato il Trattato di Losanna, uno degli ultimi fra quelli che avevano posto termine agli strascichi della prima conflagrazione mondiale. Mentre quello di Versailles, nel 1919, riguardava la Germania, e quello di Saint-Germain-en-Laye la suddivisione dell’Impero Austro-Ungarico, per le sorti dell’altro grande sconfitto, l’Impero ottomano, ci volle più tempo.
Mentre però in Germania il peso schiacciante delle condizioni di pace di Versailles fecero sorgere un sentimento d’ingiustizia e di voglia di rovesciarne le clausole, in Turchia la ricezione collettiva della nuova sistemazione internazionale fu più contraddittoria.
Certo, l’Impero ottomano con le sue vestigia territoriali e la sua gloria passato erano defunti, ma dallo sfacelo era nata una nuova nazione moderna, ponte fra Europa e Vicino oriente, in posizione strategica e con il desiderio di entrare a pieno titolo nel Ventesimo secolo. Ma c’era anche chi sin da allora pensava che quella non fosse la strada giusta per affermare la potenza turca fra gli altri stati. Occorreva conciliare la modernità con l’idea antica del dominio territoriale sull’Oriente e sull’Africa del nord.
Per questo, in Turchia sorsero voci secondo le quali il trattato di Losanna conteneva delle clausole segrete favorevoli ad Ankara che prima o dopo sarebbero entrate in vigore; oppure che, nel suo complesso, il trattato avesse una data in cui la sua validità sarebbe spirata. Ciò consentirebbe alla Turchia di riappropriarsi legalmente delle risorse energetiche, minerarie e territoriali del Vicino Oriente che gli erano state tolte con la fine della Prima guerra mondiale. Si tratta dei territori che oggi fanno parte di Siria, Libano, Iraq settentrionale, Giordania e Israele.
Fatto interessante, questa seconda versione è quella che sembra circolare maggiormente negli ambienti politici vicini al presidente Erdoğan, dai primi anni Duemila padre-padrone della Turchia e fautore di una politica di grande potenza militare. Ad esempio nel 2013 uno dei consiglieri di Erdoğan, Maksut Serim, indagato per varie frodi, in una registrazione telefonica disposta nel 2013 dalla magistratura fu sentito argomentare a lungo al riguardo con uno stretto amico di Erdoğan, che nella conversazione appariva assolutamente d’accordo con lui.
Nella prima versione, invece, quella delle clausole segrete, la voce è diffusissima nell’intera società turca: secondo sondaggi recenti la conosce, e ci crede, quasi la metà degli interpellati - e, cosa significativa, il 43% dei laureati, cosa che dimostra quanto questa diceria abbia a che fare con l’identità politica turca e con le aspettative per il futuro.
Il sostrato antisemita delle voci
Nel suo articolo, Ozan Ozavci sottolinea che la diffusione di queste voci non è soltanto discutibile, ma perniciosa. Seppur in larga misura ignari della loro provenienza e trasformate secondo le esigenze comunicative e politiche degli Anni 20 del nostro secolo, esse hanno origine reazionaria e antisemita. Si possono indiviuare almeno due personaggi della scena turca che hanno veicolato in modo potente la leggenda. Il primo, molto popolare, è stato il poeta e scrittore Necip Fazıl Kısakürek (1904-1983), molto amato da Erdoğan. Il secondo, decisamente sinistro, è il militare, golpista mancato e agitatore antisemita Cevat Rıfat Atilhan (1892-1967). Secondo Ozavci, i due cominciarono a diffondere su vasta scala queste voci negli anni ‘50. Al centro, l’idea neo-ottomana che l’abolizione del Califfato fosse stata una iattura, e che, nel complesso, il trattato di Losanna fosse stata una catastrofe. Un qualcosa che, comunque, esattamente come per le fantasie vittimistiche di cui si è detto in apertura, i turchi non meritavano.
In questa occasione, però, c’era un responsabile diretto del complotto contro la nazione turca, quello di cui, volenti o nolenti, molti turchi oggi continuano a raccontare reiterando le voci su un’imminente scadenza del Trattato di Losanna: il rabbino capo dell’Impero ottomano in via di dissoluzione, Chaim Nahum (1872-1960), che era stato uno dei componenti della delegazione turca nel corso delle trattative.
Ieri come oggi, in alcuni casi, le voci e le leggende assumono tratti paranoici, e potenzialmente assai pericolosi.
Immagine in evidenza: Le province dell'Impero ottomano in una mappa del 1794 - Immagine in pubblico dominio, fonte: qui
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