Articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo
Delitto e castigo: i temi del pentimento e del rimorso sono diffusi in mille forme diverse, in tutte le letterature e in tutte le culture. Su di esso si fondano intere saghe, romanzi, folklore, miti antichi… Ma anche leggende contemporanee (miti come quello, antichissimo, legato al cane Gelert).
Oggi vi racconteremo la storia di un pentimento clamoroso, quella del pilota di Hiroshima. È una leggenda strettamente legata alla contemporaneità, visto che riguarda uno dei simboli stessi del nostro mondo attuale: le armi atomiche.
Quale rimorso può essere paragonabile a quello per l’uso di armi così devastanti, in grado di mettere a rischio il genere umano e, forse, la vita stessa sul nostro pianeta? Come specie, come umanità, possiamo sentirci in colpa e spaventati. Ma se su uno di noi, un singolo individuo, gravasse la responsabilità di aver materialmente usato le armi atomiche contro due città… Quali caratteristiche potrebbe avere l’eventuale pentimento?
Beh, oggi scopriremo che forma ha assunto questo tema nel leggendario contemporaneo successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Ecco, dunque, la leggenda del pentimento del pilota di Hiroshima.
Un pentimento “religioso”
La prima fonte che possediamo proviene da un settimanale cattolico di Cuneo, La Guida (tuttora proprietà della Diocesi). Presenta in termini chiarissima la prima variante della storia del pilota di Hiroshima, la variante della conversione religiosa. Risale al 13 gennaio 1950.
Vocazione… atomica
Il capitano Robert Lewis è stato l’aviatore che ha lanciato la prima bomba atomica sulla Città di Hiroshima. Il pilota aveva compiuto la missione senza conoscere il preciso scopo e tanto meno le tragiche conseguenze. Quando venne a conoscere i risultati della sua azione il capitano Lewis iniziò il suo calvario: il pensiero dei 100.000 morti dell’incursione atomica tolse la pace al suo spirito.
È dei giorni scorsi la notizia della sua entrata in convento per ritrovarvi nella preghiera e nella espiazione la pace oscurata da quella terribile nube a fungo liberatasi nel cielo del 5 agosto 1945 su Hiroshima. Ci sfugge “non ogni male (e che male!) vien per nuocere”!
Dunque, verso la fine del 1949 la storia doveva già circolare. In questo caso la spinta per raccontarla è “religiosa”. Il militare “non sapeva” che cosa stava per compiere... La sua coscienza era stata scossa al punto da doversi ritirare in monastero (probabilmente, considerata la fonte, si sottintendeva trattarsi di un monastero cattolico). La spinta è interiore: l’anima tormentata dall’azione cerca di espiare.
Questa fonte però contiene un altro dettaglio importante: il nome del “convertito”, Robert A. Lewis (1917-1983). In effetti, Lewis era un ufficiale dell’Aviazione dell’Esercito degli Stati Uniti (USAAF), capitano nel 1945, e fu il copilota del B-29 che sganciò la prima bomba atomica.
Tutti gli altri dettagli, però, sono pura fantasia: Lewis non solo non si ritirò in convento, ma continuò a pilotare aerei e a far carriera come dirigente d’industria. Dichiarò molti anni dopo, pur non avendo ben chiara la natura della missione all’epoca dei fatti, in circostanze analoghe avrebbe rifatto la stessa cosa, e senza esitazioni.
Un pentimento “politico”
Una pista ulteriore per capire meglio le ramificazioni di questa leggenda ci viene da una seconda versione della vicenda: dopo la conversione religiosa, ecco comparire la variante politica del mito.
Il 9 ottobre 1950, venne organizzata una conferenza pacifista presso la Ironworkers Hall di Sydney, in Australia, a cui parteciparono centinaia di persone. Tra i relatori, compariva il giornalista e corrispondente di guerra Wilfred Burchett, (1911-1983) che era stato il primo corrispondente occidentale a raggiungere Hiroshima meno di un mese dopo l’esplosione.
Burchett si scagliò contro gli Stati Uniti e i Paesi occidentali “guerrafondai”. Da qualche tempo, il giornalista era diventato un propagandista e militante comunista, su posizioni apertamente filosovietiche e staliniste. Stando al Tribune di Sydney del 13 ottobre 1950, Burchett sostenne che
Il pilota che l’ha sganciata si è ritirato in un monastero.
La storia di fondo, insomma, era la stessa, ma cambiava l’uso che se ne faceva: era diventata uno strumento politico contro gli Stati Uniti, che avevano perpetrato un crimine contro l’umanità. L'uomo si ritirava in monastero non solo spinto dai suoi personali rimorsi di coscienza, ma dalla volontà cinica dei dirigenti americani di dominare il mondo (il conflitto religioso, quando è menzionato, rimane sullo sfondo).
La figura di Burchett, per altro, è controversa: è molto probabile che agisse come agente di propaganda per conto dei Paesi del blocco sovietico, sostenuto (anche economicamente) dai loro servizi segreti. Passò poi a promuovere la Cina maoista e morì in Bulgaria, nel 1983, quando ancora quello stato era il più rigido custode dell’ortodossia comunista.
Probabile che questo uso del mito a fini di retorica politica sia durato a lungo. Ancora il 26 aprile 1967, nel dare notizia della morte di uno dei motoristi dell’Enola Gay (il B-29 che nel 1945 aveva sganciato la bomba atomica), L’Unità riferiva che solo due membri dell’equipaggio avevano manifestato “disgusto” per ciò che avevano fatto. Uno di questi (non meglio precisato) si trovava, secondo il quotidiano, “da anni in convento”.
Un altro utilizzo che, per certi versi, potrebbe rientrare nel filone “politico” risale al 1961. Quell’anno, in Germania fu pubblicata una raccolta di lettere e interviste a Claude Eatherly, uno dei membri degli equipaggi dei due bombardieri responsabili degli attacchi (Off Limits für das Gewissen, Rowohlt Verlag, Amburgo). La prefazione era del giornalista tedesco Robert Jungk (1913-1994), che si occupò a lungo di armi nucleari e, a cavallo fra gli anni ‘50 e gli anni ‘60, fu una delle voci che contribuirono a far sorgere il pacifismo anti-americano europeo. Malgrado le sue posizioni di sinistra, a pagina XIV dell’edizione americana del libro, Jungk obiettava, parlando delle voci comparse alla fine degli anni ‘40:
Più o meno in questo periodo fece il giro del mondo una notizia secondo cui uno dei piloti che aveva preso parte agli attacchi su Hiroshima era entrato in monastero, ritiratosi in preghiera per chiedere perdono per il suo peccato. Si trattava di un mito. In realtà, il maggiore L. menzionato al riguardo [il riferimento era al co-pilota, Robert Lewis, che abbiamo già visto in apertura, N.d.R.], lavorava come direttore di una fabbrica di cioccolato.
In teoria, Jungk avrebbe potuto supinamente riprendere quella storia nella sua variante anti-americana. Eppure, pur menzionandola, scelse con onestà di prenderne le distanze.
D’altro canto, forse è il caso di accennare che la corrispondenza fra Jungk e il pilota Claude Eatherly, che è al centro del libro di cui si è appena detto, ha per oggetto il vero dramma di quell’aviatore. Cominciamo col dire che Eatherly fu comandante non del bombardiere che sganciò l’atomica, ma del velivolo da ricognizione meteorologica che lo accompagnava. Dopo la guerra, Eatherly sviluppò gravi sintomi che, a giudicare dalla loro descrizione, potrebbero forse oggi essere inquadrati in un caso di PTSD (Disturbo da stress post-traumatico): comunque sia, Eatherly mise in atto chiari comportamenti antisociali (rapine, truffe, ecc., con conseguenti condanne penali). In quegli anni chiese perdono ai cittadini di Hiroshima per la sua partecipazione all’azione militare, ma - si noti - le vere cause delle sua manifestazioni di cordoglio e del suo pacifismo sono state messe in forte discussione dagli storici. Una cosa che comunque in questa sede ci interessa, è che le sue traversie personali e la leggenda del “pilota in convento” in certi casi sono state sovrapposte. Almeno, qualcosa del genere dà da pensare il testo di una canzone anti-guerra de “I Nomadi”, Il pilota di Hiroshima, uscita nel 1985, cioè nel 40° anniversario del bombardamento atomico.
Fuori nel mondo, chissà dove/ O su nel cielo fra gli eterni eroi/ Ma nel fondo di un profondo eterno/ Vive un uomo, vive il suo inferno/ La sua bocca più non parla/ Le sue notti non le dorme più/ Sta nascosto dietro il suo pensiero/ Muore un uomo, muore senza il vero/ Il pilota di Hiroshima/ Un duro alla maniera di John Wayne/ Ray Ban scuri, il lavoro era guerra/ Ma negli occhi, quel bimbo sulla terra.
Pentirsi, e andarsene in Calabria...
Dunque, come abbiamo visto, le due correnti principali della diceria sono quella “religiosa” e quella “politica”, anti-americana.
Su questo sfondo generale, però, proprio in Italia si è sviluppato un nuovo ramo della storia del pilota pentito di Hiroshima: la diceria ha preso una piega più letteraria, con elaborazioni ai limiti del barocco. È la sotto-variante del convento certosino.
Nel luglio del 1962 il telegiornale Rai mandò infatti in onda un servizio sulla Certosa di Serra San Bruno, nel cuore della Calabria. Lì - si raccontava - viveva un frate originario dell’Illinois, padre Anthony, al secolo “Lehman Leroy”; si era chiuso in convento dopo l’esperienza tragica della Guerra di Corea (1950-1953), cui aveva partecipato come sergente maggiore dell’US Army, e in seguito a una successiva visita ad Hiroshima. Il servizio provocò l’arrivo di diversi altri giornalisti e la mescolanza di questa vicenda di conversione religiosa (che sembra abbia reale fondamento) con la nostra leggenda, quella del pilota di Hiroshima (che, come abbiamo visto, era invece inventata e circolava allora da almeno dodici anni). Il risultato di questo magma fu l’uscita, sul settimanale Oggi del 1 novembre 1962, di un articolo del redattore Gianfranco Poggi, in cui l’ex-sergente diventava - appunto - il pilota del bombardamento atomico. Compariva persino la foto, scattata un po’ di sfuggita all’interno del monastero…
Spiega una fonte recente su Facebook:
Il risultato? I monaci – autocostretti alla clausura e per nulla felici di ricevere visite indesiderate alla loro porta – dovettero esporre all’ingresso della Certosa il cartello con la seguente scritta: “Nella Certosa non c’è il pilota di Hiroshima. Non disturbate la quiete del convento. Il pilota del bombardamento atomico non c’è.
Questa fonte, però, accennava anche al ruolo di un non meglio precisato “scrittore calabrese” nella diffusione della leggenda. Di chi si trattava? Lo sappiamo dalle parole stesse dell’autore in questione, Sharo Gambino (1925-2008), che a quanto pare fu involontaria origine di questa sotto-variante.
Il 6 dicembre del 2004, il periodico Il domani della Calabria pubblicò infatti una lunga intervista allo scrittore Sharo Gambino (1925-2008), definito “memoria storica dei misteri e delle leggende che avvolgono la Certosa di San Bruno”. Anche per questo gli veniva chiesto di raccontare come lui avesse
sventato la bufala mediatica secondo la quale nella Certosa si sarebbe chiuso il pilota americano che aveva sganciato le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki [tutte e due?!, N.d.R.]
Ecco la sua risposta:
«L’ho ripetuto milioni di volte, ma a tutti, compresa la Chiesa, fa comodo la versione romanzata. In realtà si trattò di questo: scoprii - era la fine di giugno del 1962 - da un’informazione che mi aveva dato il sacrista che si era fatto certosino un soldato americano che era stato in Corea e poi aveva visto le macerie di Hiroshima. Al monaco chiesi ed ottenni un’intervista scritta con dieci domande a cui lui rispose con un discreto italiano. Dal trauma della visione di quelle macerie partì la crisi mistica che lo vide riparare nella quiete di Serra San Bruno.
Un giornalista di Oggi, Giancarlo Poggi, saputa la notizia venne a casa mia e si copiò tutto, inventandosi poi la storia che, per motivi di cassetta (80 mila lire), fu pubblicata il primo novembre del 1962, spianando così la strada alla falsa notizia che dura ancora.
Persino il cardinale Alfredo Ottaviani, Prefetto del Sant’Uffizio, scoraggiò il Priore a smentire… “è una bella storia…” si disse negli ambienti ecclesiastici».
Cosa provocò quel falso?
«Il terremoto. Pino Rauti, che è originario di Cardinale [paesino della Calabria a circa 10 km da Serra San Bruno, N.d.R.] allora era redattore del Il Tempo di Roma, mi accusò di essermi fatto mettere nel sacco. Era tanta la confusione che ad un certo punto pensai che il racconto del soldato-monaco non fosse vero, ma durò poco perché smascherai subito Poggi che, fra l’altro, mi aveva annunciato che avrebbe costruito il falso scoop per motivi veniali».
Circa la presenza del militare americano convertito nella Certosa calabrese (il sergente, non il mitologico “pilota di Hiroshima”) sembrano esserci pochi dubbi. La Gazzetta del Mezzogiorno nel 2010 spiegò che il nome esatto era Tony Lehmann (1928-2001), non “Lehman Leroy” e che era stato ordinato certosino nel 1959- Aveva vissuto a lungo in monasteri pisani e poi in Calabria. Passato all’ordine dei Gesuiti, era rientrato negli Stati Uniti, dove era stato cappellano degli studenti dell’Università cattolica “Gonzaga” di Spokane, nello Stato di Washington; lì aveva concluso la sua vita. La foto pubblicata da Oggi nel novembre 1962 si riferiva all’ex-sottufficiale, ma fu presentata come quella del “pilota atomico”.
Nel 2001, Gambino dedicò un intero libretto alla leggenda della certosa, L’atomica e il chiostro. Storia di una leggenda metropolitana (Jaca Book, 2001), in cui spiegava la questione nei termini poi ripetuti nell’intervista. Fra le altre cose, Gambino aveva potuto consultare senza particolari difficoltà i registri che indicavano tutti gli ingressi dei religiosi alla Certosa. C’era quello di Tony Lehmann, di cui ormai conosciamo l’essenziale ma, inutile dirlo, nessuna traccia di transiti di “ex-piloti” o simili.
Il sottotitolo del libro di Gambino, però, oltre che il monaco di Hiroshima menzionava un altro nome: quello del fisico Ettore Majorana. Che cosa aveva a che fare Majorana con la diceria del pilota pentito?
La “variante Majorana”
Ciò che accadde è che a un certo punto la variante del “monastero calabrese” si mescolò con un altro grande mistero italiano, fonte di voci e dicerie a non finire: la sparizione mai chiarita del fisico siciliano Ettore Majorana, avvenuta alla fine di marzo del 1938. La sorte di Majorana era parte di una vicenda del tutto separata dalla nostra “diceria atomica”, ma per alcuni le due cose erano legate. A rimescolare le carte fu un intellettuale di primo calibro.
Nell’autunno del 1975, lo scrittore Leonardo Sciascia pubblicò a puntate su La Stampa una serie intitolata La scomparsa di Majorana, che confluì poi un libro pubblicato da Einaudi. Qui compariva, aggiornata, l’idea di una crisi mistico-spirituale del fisico, che lo avrebbe indotto a ritirarsi segretamente in un convento. Non era un’ipotesi del tutto inedita: la si trova, ad esempio, già su Stampa Sera del 13-14 luglio 1938 (ovviamente, all’epoca si parlava solo di un desiderio personale di Majorana, una conversione non legata alle sue ricerche: l’era delle esplosioni atomiche era ancora lontana). Sciascia, però, faceva un passo in più: identificava il luogo dell’eremitaggio nel convento di Serra San Bruno, quello già al centro della leggenda del pilota americano.
Come gli venne in testa questa fusione “moderna” fra le due leggende? Beh, lo sappiamo grazie al giornalista Marcello Sorgi, che ne scrisse per La Stampa il 17 novembre 1999, a dieci anni dalla morte del grande scrittore. In quell’articolo, Sorgi ripercorreva i suoi rapporti personali con Sciascia: lo aveva conosciuto nella redazione del quotidiano palermitano L’Ora, nella prima metà degli anni ‘70. Una sera, in redazione, Sciascia spiegò a Sorgi e al direttore del giornale, Vittorio Nisticò (1919-2009), che stava lavorando a una ricostruzione romanzata del caso Majorana, ma gli mancava una chiusa che, spiegava Sorgi, non fosse né una conclusione logica né un mistero lasciato aperto.
[...] Fu Nisticò, persino involontariamente, a suggerire la via d’uscita: ascoltando Sciascia, si fece tornare in mente una sorta di leggenda appresa molti anni prima. La storia di uno strano personaggio, forse un americano, approdato nel primo dopoguerra in un piccolo convento calabrese, e lì rimasto per il resto dei suoi giorni: per espiare, si diceva, un grande rimorso. Attorno a quest’uomo, di cui nessuno ricordava il nome, era sorta una strana credenza: c’era chi diceva che potesse trattarsi del pilota americano che aveva sganciato la bomba su HIroshima. Di qui - la guerra, la prima bomba atomica e il rimorso possibile di chi aveva intuito le implicazioni di quella spaventosa energia - nacque la conclusione visionaria del libro di Leonardo.
Majorana, dunque, si sente responsabile morale dei futuri sviluppi delle sue ricerche e segue la sorte dell’esecutore materiale dello sgancio della bomba. Quest’ultimo, essendo un “comune” militare abituato ad obbedire agli ordini, può ritirarsi in convento soltanto a posteriori, ossia dopo aver constatato direttamente il male commesso. Lo scienziato - intelletto superiore - Hiroshima è in grado di vederla ben sette anni e mezzo prima e quindi, nell’immaginazione di Sciascia, se ne può andare in convento in anticipo sugli eventi… senza che nemmeno sia iniziata la Seconda Guerra Mondiale!
Immagine in evidenza: l'equipaggio del bombardiere B-29 "Enola Gay", che sganciò la bomba di Hiroshima, in parata, acclamato dalla folla.
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