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Folklore di guerra: gli shibbolet, password linguistiche




Articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo


5 I Galaaditi intercettarono i guadi del Giordano agli Efraimiti; e quando uno dei fuggiaschi d’Efraim diceva: «Lasciatemi passare», gli uomini di Galaad gli chiedevano: «Sei un Efraimita?» Se quello rispondeva: «No», i Galaaditi gli dicevano: 6 «Ebbene, di' Scibbolet»; e quello diceva: «Sibbolet», senza fare attenzione a pronunciare bene; allora lo afferravano e lo scannavano presso i guadi del Giordano. Perirono in quel tempo quarantaduemila Efraimiti. (Libro dei Giudici, 12, 5-6, traduzione Nuova Riveduta)

Rodney Dale (1933-2020) è stato uno scrittore e divulgatore inglese di grande successo. Ha pubblicato moltissimi libri, ma a noi interessa per un motivo: forse lo si può considerare il vero, grande papà della ricerca attuale sulle leggende contemporanee.


Non era un accademico, ma nei suoi lavori cominciò a interessarsi di quelli che lui chiamava FOAF - Friend of A Friend Tales (“Racconti dell’amico di un amico”). Fra gli Anni 70 e gli Anni 80 raccolse una gran quantità di aneddoti, dicerie, suggestioni letterarie alle quali inframezzava sue brevi analisi, commenti, considerazioni. Anche se non sono sistematici, quella miniera di spunti, idee, connessioni e scoperte rimane ancor oggi importante - e utile - per chi, come noi, prova a scrivere di leggendario moderno.

Il suo primo libro sulle nostre questioni - e anche quello più noto - è The Tumour in the Whale, del 1978. Dale era un bambino durante la Seconda Guerra Mondiale; come tanti altri europei a lui contemporanei, i suoi ricordi sono stati segnati dal conflitto bellico. Anche per questo, un intero e lungo capitolo di The Tumour in the Whale, il quinto, è dedicato proprio alle narrazioni di gerra.


Ne riprendiamo una da quelle pagine, perché è tornata di tragica attualità.


La sindrome di Scheveningen, ieri…


L’inglese è una lingua che ha una parentela, sia pur relativa, con il tedesco. Il tedesco, però, ha un legame assai più stretto con idiomi come il danese e, ancor più, con l’olandese che, ricordiamolo, in inglese si chiama Dutch, mentre il tedesco in tedesco è Deutsch, e in olandese tedesco si dice Duits


Proprio la vicinanza culturale, la prossimità geografica e i lunghi rapporti commerciali sono all’origine di un gruppo di storie raccontate da Dale nel suo libro e che possono essere raccolte sotto il capitolo dei cosiddetti shibbolet: lemmi che, come avviene nel racconto biblico del Libro dei Giudici che abbiamo riportato in apertura, per la loro difficoltà fonetica si ritengono utili a discriminare fra “noi” e “loro”, tra i membri della propria comunità e il nemico. Chi ha una lingua diversa dalla nostra (ma, tuttavia, non troppo dissimile) non sarebbe in grado di pronunciarli correttamente, ma li imiterebbe in maniera imperfetta confidando un po’ troppo nelle sue capacità mimetiche.


Il primo racconto di Dale riguarda proprio l’Olanda, la cui pronunzia, com’è noto, risulta ostica a molti europei - non certo solo ai parlanti un idioma neolatino come l’italiano. La parola da far pronunciare al potenziale infiltrato tedesco è il nome della località costiera di Scheveningen, vicinissima all’Aia. Dale racconta la storia che la riguarda in un modo - letteralmente - fulminante:


L’abitante del posto, sospettoso, indica un cartello con la scritta “Scheveningen”
- Leggilo!
Il nemico infiltrato: - Skreveningen
BANG!

Su questo raccontino Dale faceva una considerazione interessante. In realtà, per chi viene da una lingua sassone, in particolare per chi ha come prima lingua il tedesco, il nome Scheveningen non è così ostico da pronunciare, con un po’ di pratica. Ci sono espressioni, faceva notare ancora Dale, mille volte più comuni del nome di quella località: provate a scandire come si deve (ed era un inglese, a dirlo!) la frasetta olandese Ik ga, ossia “Io vado”, e... buon divertimento.


A conferma dell’intuito pionieristico di Dale: la questione dell’uso in guerra della parola Scheveningen è stata, sia pur in breve, esaminata dal linguista Tim McNamara in un suo lavoro apparso nel 2005 sulla rivista Language Policy (vol. 4, infra: 355-356). Stando a una testimonianza da lui raccolta, la storia circolava in Olanda già ai tempi dell’occupazione tedesca (1940-45). In questo senso può darsi avesse, come molte altre di questa rassegna, una funzione ansiolitica e diminutiva delle vere possibilità del nemico.


Lo stesso Dale ricordava che, durante la Seconda Guerra Mondiale e quando lui era un bambino, suo nonno gli consigliava, caso mai avesse incrociato un estraneo sospetto, di fargli dire Where were the wise women? (“Dov’erano le donne sagge?”)... Non tanto perché potesse essere importante per i nazisti sapere dove reperire le inglesi più scaltre, ma perché, si pensava, il tedesco medio sarebbe caduto nel suo tipico difetto: avrebbe pronunciato la w dell’inglese come una v, un po’ come nei cartoni animati di propaganda.


Anche in Danimarca, sempre in quel periodo, girava un altro shibbolet: questa volta i potenziali tedeschi dovevano dire Rødgrød med fløde, cioè “porridge rosso con panna”, un dolce caratteristico danese. In questo caso, la narrazione su ciò che il nemico deve fare prende una piega ulteriore: deve essere in grado di “dire” un elemento fondamentale dell’identità culturale del posto che intende invadere. Molti shibbolet, curiosamente, hanno a che fare proprio con preparazioni culinarie.


Un esempio “nostrano” di shibbolet


Intendiamoci: l’uso di shibbolet non è, necessariamente, una leggenda metropolitana. È possibile che, almeno in qualche caso, queste “password linguistiche” siano state davvero utilizzate. Possiamo dire che il loro impiego si colloca in uno spazio molto più indefinito: tra l’aneddoto di guerra, la goliardia militare e la narrazione mitica di episodi ormai lontani nel tempo. Sono un elemento di identità culturale, che definisce in modo netto un noi e un loro. In tempi di guerra, queste narrazioni hanno un fascino ineguagliabile: vanno a fondersi con le mille leggende su spie, infiltrati e sabotatori che cercano di farsi passare per membri della comunità (ma qualcosa, a quanto pare, li rende sempre diversi).


Se volete leggervi un’interessante carrellata di shibbolet, vi consigliamo questa pagina di Wikipedia in lingua inglese. Noi ve ne raccontiamo solo uno, perché fa parte del leggendario italiano.


Risale al 1282, durante i Vespri siciliani, l’episodio storico mitizzato durante il Risorgimento. La Sicilia all’epoca era dominata dalla dinastia francese degli Angioini. La sera del 30 marzo, il lunedì di Pasqua, scoppiò una rivolta contro gli invasori (secondo la leggenda, innescata da un tentativo di stupro commesso da un soldato, Drouet, nei confronti di una nobildonna del posto). Da Palermo, gli scontri si estesero al resto dell’isola portando infine alla cacciata dei francesi. In quegli scontri, si racconta che i rivoltosi girassero con in tasca un pugno di ceci da mostrare a ogni persona sospettata di essere francese. Se il malcapitato non fosse stato in grado di pronunciare correttamente la parola ciciri (ceci), magari storpiandola in sciscirì, avrebbe fatto una gran brutta fine.


Sul significato, più che sulla pronuncia, si basa invece il test della cadrega, di un indimenticabile sketch di Aldo, Giovanni e Giacomo. Nella gag Aldo-Dracula, invitato a prendere una cadrega (una sedia, in dialetto lombardo) afferra dal tavolo una mela, denunciando così le sue origini meridionali.


...La Sindrome di Scheveningen, oggi


Come tutti i conflitti militari, anche la guerra russo-ucraina ha generato fin dal primo giorno voci, leggende, falsi propagandistici, meme. Molti aneddoti e dicerie sono, spesso quasi alla lettera, presentazioni aggiornate di storie circolanti in altri periodi bellici, a partire dalle due guerre mondiali.


Possiamo dire che anche la sindrome di Scheveningen, come l’abbiamo chiamata per capirci, è tornata a girare nelle immense pianure ucraine contese dai due eserciti, in forme che sono a metà fra l’episodio reale e il folklore bellico volto ad aumentare la distanza fra “noi” e “loro” (e ricordiamo che, comunque, molti ucraini sono russofoni).


Non sappiamo come sia iniziata; ma già il 26 febbraio, il terzo giorno di guerra, l’utente George Yeromin ha postato su Twitter un breve video in cui, a quanto pare, un automobilista ucraino incappa in un gruppo di soldati nella nebbia. Per capire se si tratta davvero di connazionali, chiede loro di pronunciare la parola palyanytsa (паляниця), un tipo di pane il cui nome, a quanto pare, i russi storpierebbero in modo da rendersi riconoscibili.


Da quel momento la storia del pane-scopri-russi è dilagata e ha raggiunto anche i media internazionali. Il 1° del mese, Newsbeezer.com la menzionava sostenendo una cosa interessante, e cioè che la storia risaliva “ai vecchi tempi delle guerre sovietiche” - forse con riferimento alla vicende complicate che toccarono l’Ucraina nella Seconda Guerra Mondiale e, ancora prima, al duro periodo del comunismo sovietico.


L’articolo però si soffermava su un altro aspetto interessante: a Kyiv, il timore dei sabotatori e dei paracadutisti russi aveva assunto toni paranoici. Li si vedeva dappertutto, e, oltre che il sistema antispie della palyanytsa, si diceva fossero utili anche altri mezzi: ad esempio, chiedere ai sospetti se sapevano indicare dove si trovava la più vicina filiale di una banca che - lo sapeva tutti, in Ucraina - svolgeva solo attività online. Secondo l’agenzia France Press invece un certo Pasha, tassista della capitale, aveva escoglitato un altro trucchetto: cominciare a cantare una hit musicale ucraina recente, che iniziava con le parole Oleinïi, Oleinïi, per poi chiedere al sospetto russo di continuare con i versi successivi.


Il 4 marzo, alla parola palyanytsa è stata dedicata attenzione specifica da parte di France Press. Particolare interessante: nel commentare la notizia dell’agenzia parigina, un utente di Twitter ha scritto che con questa storia era “tornato il tempo di Scheveningen” (cosa che dimostra quanto, in certe aree europee, la versione olandese dello shibbolet sia tuttora viva).


Ancora il 12 marzo, di nuovo su Twitter, ecco una testimonianza di prima mano: il giornalista Christopher Curtis ha scritto che, in una stazione ferroviaria ucraina sul confine polacco, è stato sospettato per un momento di essere una spia russa. Per provare di non esserlo, gli avevano chiesto di pronunciare palyanycia (in questo caso il termine in cirillico è stato traslitterato così). Dopo aver biascicato la parola, conclude Curtis, gli ucraini soddisfatti lo avrebbero lasciato andare. Infine sei giorni dopo, il 18 marzo, un altro utente di Twitter scriveva che palyanytsa era ormai diventata la parola che gli occupanti temevano più di tutte.


Insomma: il cibo, oltre a essere buono, scopre pure chi non è “dei nostri”. Anche oggi, per scherzo, in Piemonte l’emigrato dal Sud Italia è tenuto a pronunciare senza incespicare Dui purun bagna’n’t l’oli (“due peperoni bagnati nell’olio”). Davvero, come avrebbe detto Feuerbach, l’uomo è ciò che mangia. La spia, magari, lo è anche di più.


Nell'immagine in evidenza: Scheveningen, con il Kurhaus e il vecchio molo, ripresi dal cielo nel 1921.


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