top of page
Cerca
  • Immagine del redattoreRedazione

Gli ultimi lupi mannari italiani


articolo di Paolo Toselli


Lo sapevate che settant’anni fa la nostra penisola, da nord a sud, fu interessata da una vera e propria epidemia di lupi mannari?


Se non ci credete, leggete la rassegna di cui dispone il CeRaVoLC e che oggi ho ordinato per voi.


Il 14 luglio del 1949, a Roma, a Villa Borghese, in una notte di Luna piena agenti di Polizia dovettero affrontare nel bel mezzo del parco un individuo furioso che guaiva e scavava nel terreno con le unghie insanguinate, minacciando tutti quelli che cercavano di avvicinarsi. Era uno degli attacchi di cui soffriva Antonio Rossi, un ex lucidatore disoccupato nato nel 1918 a Roseto degli Abruzzi (Teramo). L'uomo dichiarò che i suoi attacchi si manifestavano durante il plenilunio. I capelli si rizzavano, tutto il corpo era pervaso da un caldo intensissimo e lui si ritrovava una forza tremenda.


Lo storico Cesare Bermani ebbe modo di intervistarlo nell’agosto 1969 nella sua casa di Roseto degli Abruzzi dove viveva con la moglie, e ne riferì nel libro Volare al sabba, una ricerca sulla stregoneria popolare (DeriveApprodi, Roma 2008) in un capitolo dedicato a quelli da lui definiti “deliri da metamorfosi”.


Rossi, che visse a Roma per trentun anni, conservava nel portafoglio gli articoli che parlavano delle sue gesta. Il primo attacco si era manifestato proprio a Roma il 29 luglio 1946. Era appena tornato a casa dal lavoro e si stava spogliando, quando si accorse di non poter togliere la cintura perché le mani gli si erano tese. L’articolo “Un lupo mannaro di notte, per le vie di Roma” pubblicato sul Corriere d’informazione del 14 novembre 1947 si riferiva ad una delle tante crisi: un uomo con un cappello grigio calato sugli occhi, avvolto in un cappotto scuro si aggirava per piazza Colonna urlando con voce inumana. Dopo aver terrorizzato un paio di ragazze si era dileguato. Ne scrisse in prima pagina anche L’Unità del 24 gennaio 1949 in un breve trafiletto intitolato “Riappare a Roma il lupo mannaro”.


Gli attacchi di Rossi si manifestavano davvero coi pleniluni. L’acqua lo attirava e beveva, anche acqua sporca. Capitava che si buttasse nel Tevere oppure che si gettasse in una fontana della capitale. Considerato “pericoloso a sé e agli altri” venne dapprima portato al Regina Coeli e poi messo in manicomio, dove restò lungamente internato. Cessati gli attacchi, dopo tre anni fu rilasciato. L’uomo cercò anche una spiegazione per quanto gli era accaduto. Ecco come aveva interpretato i suoi comportamenti. Nel periodo dell’armistizio, ossia a fine estate 1943, fu morso da un cane e curato contro l’idrofobia. Ma non poté finire la cura perché l’ospedale fu occupato dai tedeschi. O forse il male era insorto perché durante la guerra aveva maneggiato benzina inglese che risultò “velenosa”? Per questo chiese una pensione di invalidità per licantropia, che, tristemente, non gli fu mai concessa.


Del resto, già un lungo articolo pubblicato un paio d’anni prima, e più esattamente il 15 settembre 1946 sul settimanale La Provincia di Lecce aveva riferito nella pagina di cronaca cittadina che “da qualche giorno il nostro popolino è in subbuglio, perché un lupo mannaro sarebbe apparso sulla via di San Cesario”, per proseguire poi con la descrizione particolareggiata della “belva umana” e delle sue gesta.


Il tutto sintetizzato in questo sommario:


Scene di terrore - Grida strazianti di individui acciuffati e feriti dalla belva feroce – La moglie del lupo mannaro sgozzata – La stessa sorte capitata a due suoi figli – Feriti all’Ospedale – Carabinieri e agenti di P.S. seguono le sue orme.

Dopo un approfondimento sul fenomeno patologico “conosciuto scientificamente col nome di licantropia” e le antiche superstizioni, l’ultimo paragrafo riferiva però, in aperta contraddizione con quanto appena asserito:


Da noi non si ricordano casi di lupo mannaro e ci auguriamo non se ne abbiamo mai a constatare.

Allora, le efferate, e a dir poco esagerate, gesta del licantropo leccese altro non erano che pura invenzione giornalistica o semplici dicerie?


Nello stesso periodo, le cronache si occuparono però anche di un altro episodio, a dire il vero dal nostro punto di vista assai più emblematico di quello del ‘46. L’8 novembre 1948 in prima pagina il quotidiano torinese Stampa Sera in una corrispondenza da Napoli scriveva:


Nonostante il mare grosso e sotto l’imperversare di un temporale una giovane signora si era svestita completamente sulla scogliera del Molosiglio e stava per tuffarsi in acqua. Una pattuglia di agenti, ritenendo che la signora volesse tuffarsi a scopo suicida l’ha raggiunta e obbligata a rivestirsi accompagnandola poi in questura. Qui è stata identificata per Iolanda Pascucci, di 29 anni, da Roma, moglie del musicista Francesco Buzzoni, appartenente all’orchestra della RAI, e separata da qualche tempo dal marito. La signora ha due figli. Circa i motivi che l’avevano indotta a svestirsi, la signora ha dichiarato che essendo da tempo affetta dal caratteristico male del “lupo mannaro”, mentre si trovava in Galleria, presagendo una nuova crisi, aveva ritenuto opportuno recarsi sulla scogliera e tuffarsi in mare, perché il contatto con l’acqua fresca già altre volte le aveva fatto bene.

Si venne a sapere che la donna - si tratta di uno dei rari casi femminili di “licantropia” - era stata assalita per la prima volta dal “male” all’età di dodici anni. Nelle notti di Luna piena preavvertiva una strana sensazione. La bava alla bocca, gli occhi dilatati, Iolanda sentiva il bisogno di acqua, tanta acqua in cui spegnere quel fuoco che la stava consumando. Poi, con il passar del tempo, le crisi si diradarono. Dopo le nozze la donna avvertì le avvisaglie di un nuovo attacco e una sera scappò di casa non facendo ritorno che all’alba. Seguirono anni di cure inutili. Alla fine dovette andarsene lasciando al padre i figli. Si dice che si trasferì a Napoli per nascondersi e per avere vicino il mare nei momenti di crisi. Così nacque la leggenda della “Lupa di Posillipo”.


Ma le nostre storie non finiscono qui. A Bologna, il ferimento al basso ventre di un’avvenente donna di trentaquattro anni avvenuto nottetempo, secondo quanto riferito dal Corriere d’informazione del 14 gennaio 1948, spinse la polizia a catalogare l’aggressore, - dall’apparente età di quarant’anni, statura media con occhi bovini, che indossava un soprabito chiaro e calzava un paio di pantofole - “tra i pazzi detti lupi mannari”.


Spostandoci ad Ancona, secondo un articolo dello stesso quotidiano del 12 novembre 1948:


Un lupo mannaro si aggirerebbe nottetempo tra le macerie delle case sinistrate del quartiere di Piano San Lazzaro emettendo cupi ululati e agitando un bastone. Un impiegato ha dichiarato alla polizia di essersi imbattuto in una figura che “camminava a salti felini e agitava una specie di clava, abbaiando – sono le sue testuali parole – come un cane arrabbiato”. Inseguito dalla “belva” si riparò in una casa dove vi rimase tutta la notte. L’uomo avrebbe riconosciuto nel licantropo un suo vicino di cui però non ha voluto fare il nome.

Trascorse qualche mese, e l’attenzione si spostò sulle alture di Genova, dove, a seguito della denuncia di lugubri lamenti, pattuglie di carabinieri iniziarono ad ispezionare la zona tra via Bologna e via Venezia


finché alcuni militi si imbatterono in uno strano individuo, che tentò di fuggire emettendo ululati spaventosi. Ma i carabinieri riuscirono a catturarlo identificandolo come Beniamino Chessernik, di 33 anni, da Cerreto” (Corriere d’informazione, 4 giugno 1949).

Altre fonti d’epoca riferirono che in una notte di maggio del 1950 a Pisa, in piazza Buonamici, nei pressi di una chiesa, il filosofo settantaduenne Armando Carlini, già rettore dell’università, era stato assalito mentre tornava a casa da un essere con andatura scimmiesca che urlava disumanamente. Riuscito a mettersi in salvo, sul portone di casa udì che i lamenti erano diventati un acuto e prolungato ululato. Si pensò ad un attentato politico (Carlini fu accademico d’Italia e deputato alla Camera fascista), ma la notte seguente la medesima figura aggredì un cameriere del ristorante Nettuno.

In autunno fu il caso della provincia di Cuneo, come scrisse il Corriere d’informazione, del 1° ottobre 1949:


Il lupo di Savigliano è stato arrestato
Si apprende che il “lupo mannaro” di Savigliano, un operaio di 17 anni, ha confessato di aver commesso ripetute aggressioni nei dintorni della città, oltre ad un omicidio, “allo scopo di raccogliere un gruzzolo ed emigrare in America”.
Quattro anni dopo, i quotidiani riferivano che il “lupo mannaro”, così soprannominato dalla gente del posto per le sue efferate imprese notturne, al secolo Giuseppe Panero, era stato condannato a 18 anni e 7 mesi di reclusione e a 3 anni di ricovero in una casa di cura in quanto giudicato semi-infermo di mente.

Nello stesso periodo, secondo il Corriere d’informazione del 29 maggio 1950, un giovane di 17 anni fu protagonista, a mezzanotte, di un clamoroso inseguimento conclusosi nel cuore di Roma. Trattenuto da una maschera mentre stava per introdursi in una sala cinematografica senza biglietto si svincolò e fuggì. Inseguito da due addetti del locale, due carabinieri e un passante, fu raggiunto e afferrato, ma, urlando in modo animalesco, riuscì a liberarsi fuggendo verso piazza di Spagna, dove si gettò nella fontana del Bernini. Una volta catturato, il giovane, sprovvisto di documenti, fu condotto nella vicina stazione dei carabinieri. Qui però si buttò a terra ululando e i militi dovettero gettargli addosso parecchi secchi d’acqua fredda per calmarlo. Poco dopo, una vecchietta recatasi in caserma dichiarò di conoscere il giovane che, a suo dire, era da tempo affetto da grave malattia per la quale era in cura. Ciò chiarito, i carabinieri accompagnarono a casa il giovane riconsegnandolo ai genitori. L’articolo si conclude con la lapidaria sentenza: “Pare certo trattarsi di un caso di licantropia”.


E, ancora, La Stampa del 2 settembre 1950 riferiva di un altro “lupo mannaro” fermato questa volta a La Spezia.


Piccolo, ossuto, animalesco nei tratti sottili ed aguzzi del viso, Giorgio Vangi, 23enne, non ha però all’apparenza nulla che lasci supporre in lui un essere anormale o, come lo hanno definito le cronache della città in questi ultimi due mesi, un “mostro”. E’ di carattere docile, timido, persino, dicono i compagni di lavoro, malfermo in salute. Certe mattine compariva tra loro col pallore di chi non aveva chiuso occhio: un paio di volte svenne. Stamane il Vangi non si è presentato ai cantieri del porto mercantile ove lavora: si seppe poi che era stato fermato e tradotto in questura.
E’ stato così possibile ricostruire un racconto che, notte per notte, seppur incerto e non sempre credibile, appassionò la città per due mesi. Il primo a dare notizia in proposito fu un mendicante, Raccontò che una notte, in via XX Settembre, - una via a ridosso della città solitamente deserta – s’era imbattuto in un essere bestiale che ululava come un cane. Da quella sera furono in molti ad appostarsi lungo la via. Ma il ricercato, forse perché messo sull’avviso dalle voci che circolavano sul suo conto, prese una strada soprastante. Fu possibile però intendere, frammisto al latrare dei cani della zona, un penoso e lungo lamento che a sussulti si trasformava in un netto ululato.
Successivamente non s’ebbero altre apparizioni, sicché la storia suonavano stava per rientrare nel nulla. Ma alcune sere or sono, a tarda notte, alcuni giovani all’ospedale e, come il cancello si aprì, trassero dentro a viva forza un piccolo essere tremante in preda a una violenta convulsione. Al medico di turno non fu possibile cavargli una parola di bocca, per cui lo fece adagiare su un lettino per praticargli un’iniezione sedativa. Ma, in quel preciso istante, l’uomo lupo si riebbe dalla crisi, intravide la porta aperta e di là dalla porta il muro di cinta, poi la strada. Con due balzi improvvisi passò la porta, saltò il muro e agli altri, presi alla sprovvista, ogni inseguimento riuscì vano. La zona fu battuta in ogni senso dalle macchine, dalle biciclette, con nessun esito. La faccenda fu rimessa allora alla questura.
Ieri notte l’agente Ferrari fu mandato di servizio in via XX Settembre coll’incarico di rintracciare il Vangi. In mattinata rientrò a mani vuote, ma presentò un primo rapporto nel quale è detto che il ricercato apparve verso le 2 di notte. Lo precedeva un intenso abbaiare di cani, ridestati dal suo apparire, nelle ville tutto attorno. Il Vangi camminava in mezzo alla strada, in preda a convulsione e fortemente si lamentava. A tratti il suo lamento aveva le precise caratteristiche dell’ululare dei cani. L’agente ritenne pericoloso affrontarlo in quello stato anormale e preferì seguirlo a breve distanza. La crisi del Vangi fu lunga e si placò soltanto verso le prime ore del mattino. L’agente continuò a pedinarlo e lo “fermò” mentre si recava al lavoro. Mezz’ora dopo il Vangi era in osservazione all’ospedale: un’ora dopo un consulto medico lo dichiarava affetto di avanzata licantropia.
La direzione dell’ospedale riteneva però, dato il caso particolare, di non ricoverarlo, ma di consegnarlo all’autorità di P.S. perché il licantropo sia mandato piuttosto agli specialisti. La diagnosi stabilisce che il Vangi, che ha avuto uno sviluppo anormale, è affetto anche da una forma di infantilismo. Il padre fu affetto lungamente da rabbia per una morsicatura canina.

Di quest’uomo, peraltro, le cronache si erano già occupate qualche giorno prima di questo lungo articolo. Si veda ad esempio il pezzo “Un uomo-lupo in Liguria inutilmente inseguito” uscito sul Corriere d’Informazione del 28 agosto 1950, ove si riferiva di urli laceranti, bestiali, che avevano messo in allarme la popolazione del quartiere Mazzetta di La Spezia. Alcuni giovani avevano battuto la zona e catturato “un uomo affetto da licantropia”. Condotto a viva forza all’ospedale, lo sconosciuto, sui 35-40 anni, era andato su tutte le furie; ridendo come un pazzo aveva messo tutto sottosopra. Gli astanti avevano cercato di fermarlo, ma quello era riuscito a fuggire: aveva scavalcato un muro alto circa tre metri e quindi si era dileguato nel buio.


Concludiamo questa carrellata con altri due episodi. Il primo è un fatto toscano riferito dal Corriere d’informazione il 16 settembre 1950.


Un caso di licantropia viene segnalato da Sant’Andrea Rovezzano, protagonista un uomo non identificato che da cinque notti terrorizzava la popolazione. Ieri sera un pescatore e alcuni giovani hanno colto il “lupo” in piena crisi. Lo sventurato si dibatteva nelle acque dell’Arno, col volto sfigurato dal convulso. Superata la crisi, egli ha spiegato ai presenti che, nel delirio di quel suo male, ha assoluta necessità di gettarsi nell’acqua e di rotolarsi sino allo spasimo.

Il secondo e davvero ultimo si riferisce di nuovo al Piemonte. Se ne occupò il settimanale Risveglio Ossolano del 18 ottobre 1950.


Arrestato il “lupo mannaro”
Un folle che da qualche tempo terrorizzava le donne sole, e nessuna era riuscita a riconoscere e descrivere in modo sufficiente a renderne possibile di individuarlo, è stato finalmente arrestato. Trattasi di un certo Orfeo Negri fu Giacomo di anni 30, da Rolo (Reggio Emilia), ammalato da otto anni di licantropia, ereditata dal padre che ne è morto. Bussava alle case e spaventava le donne con discorsi scurrili, senza tuttavia tentare atti di violenza, ma disturbando la sicurezza delle cittadine. Leggende si erano create sul suo conto, dal racconto delle donne che erano state avvicinate, e il folle di era creata una fama di “lupo mannaro”. Si tratta invece di un ammalato, che ora è stato inviato in una casa di cura.

* * * * *


Per spiegare il clima in cui prese vita questa particolare recrudescenza occorsa nei primi anni anni del secondo dopoguerra possono esserci di aiuto alcuni scritti contemporanei ai fatti narrati. Per intanto, come già ricordava in suo studio prebellico Paolo Emilio Pavolini, filologo e accademico d’Italia, “la credenza nella licantropia è una delle più antiche, diffuse e tenaci” (Il lupo mannaro come motivo letterario, Lares, vol. 8, n. 1, marzo 1937).


Ancor più significativo e vicino a noi il fatto che su Stampa Sera del 21 febbraio 1948, dunque in data coeva ai fatti, fosse pubblicato un ampio articolo a firma di Mario Sturani (1906-1978), artista e scienziato, amico di Cesare Pavese, dal titolo “Terrore nella notte” in cui lo studioso oltre a ricordare che


Secondo le credenze popolari il licantropo, o lupo mannaro (dal basso latino lupus hominarius) a mezzanotte del plenilunio da uomo diventa lupo, esce di casa ululando, fugge nei boschi più selvaggi e si rotola nell’acqua dei pantani. Guai a chi l’incontra perché è feroce e sbrana anche i più coraggiosi. Secondo il popolino la causa di tutto ciò sarebbe il Mal di Luna e per liberarne il disgraziato basterebbe colpirlo in fronte a sangue, ma prudentemente però, dall’alto di una finestra approfittando del fatto che esso pare non possa… salire le scale.

Così leggeva anche il ritorno del lupo mannaro per le strade:


La guerra ci ha lasciato un’altra ben triste eredità: la paura. Paure politiche, paura di altre guerre, paura d’incontrar all’angolo della strada un malvivente. La paura, si sa, genera la paura, attecchisce, serpeggia, dilaga, aiutata dall’ignoranza e dalla miseria, e la gente può così credere ancora al possibile incontro coi vampiri, i lupi mannari e, perché no, il diavolo. Credevo che tali paure fossero frutto di superstizioni ormai tramontate ed invece eccole di nuovo spargere il terrore sul mondo: su di un povero mondo che la guerra e la cattiveria degli uomini hanno sconvolto, riempito di terrore e fatto impazzire.

D’altro canto, in quel periodo il tema era tanto di moda che il 29 giugno 1947 il Corriere della Sera aveva il racconto “L’ultimo licantropo”, opera di uno scrittore di vaglia come Riccardo Bacchelli, il noto autore de Il mulino del Po, in cui lo stesso Bacchelli narrava di essersi imbattuto, sostando davanti ad un passaggio a livello, in un lupo mannaro - l’ultimo della sua specie - con cui aveva intrattenuto un fantasioso dialogo.


Da ricordare, ultimo ma non ultimo fra gli interventi letterari "alti" di quella fase, anche il racconto breve “Gas” scritto da Pier Paolo Pasolini proprio nel 1950 ma poi raccolto solo nel 1965 nel volume Alì dagli occhi azzurri. Vi si narra, usando il tema classico della metamorfosi animalesca dell’umano, di un pedofilo fuggito dal carcere e sbranato da un lupo mannaro alla periferia di Roma.


Forse però si potrebbe però cogliere un’altra chiave di lettura, in questa curiosa, ultima recrudescenza italiana del mito dei lupi mannari.


Con l’approssimarsi della sconfitta tedesca nella Seconda Guerra Mondiale, la stessa propaganda nazista, le voci e pure alcune fonti militari alleate cominciarono a diffondere la preoccupazione che, in vista della prossima disfatta, gli hitleriani potessero organizzare una vasta rete di guerriglia, di sabotaggio e terroristica che sarebbe entrata in azione dopo la fine ufficiale delle ostilità.


Se da un lato si trattava di preoccupazioni esagerate e - appunto - di propaganda, come per il mitico Ridotto alpino, che avrebbe dovuto garantire una resistenza militare a oltranza fra i monti austriaco-bavaresi, dall’altro i tedeschi tentativi e pianificazioni simili li fecero sul serio.


Per questo pensarono una struttura clandestina che prese il nome di Werwolf, cioè “Lupo mannaro”. Ne annunciarono la nascita il 1° aprile 1945, da una stazione radio che portava proprio quel nome. La paura crebbe.


I Lupi mannari tanto attesi stavano per entrare in azione. Sui giornali del tempo se ne trova ampia traccia a partire dal 2 aprile 1945.


In realtà, l’evidenza storica sulla portata delle azioni compiute dai lupi mannari nazisti è assai controversa. Gli si attribuiscono più o meno correttamente alcune azioni nel 1945, ma di solito gli storici sono abbastanza concordi nel considerarlo un episodio minore, esauritosi in fretta. Le conseguenze delle azioni di questi fanatici le subirono più che altro le stesse popolazioni tedesche: le reazioni degli occupanti, la repressione contro terroristi più o meno presunti, assai pesanti. I sovietici si diedero, nelle zone da loro controllate, a violenze sistematiche motivate contro i civili motivandole con la lotta al Werwolf.


La preoccupazione per attentati, uccisioni e altri colpi di mano durò almeno sino a tutto il 1948. Nel frattempo i nostri “veri” lupi mannari, quelli di cui vi abbiamo parlato, erano ricomparsi per l’ultima volta in Italia, urlando e dimenandosi.


Per l’ultima volta. Forse.


3.711 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti
bottom of page