I Pokemon fanno venire l'epilessia?
- Redazione
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Articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo
Nel settembre del 2024, Alexander Ivanov, capo del Dipartimento attività ideologiche del Ministero della Difesa bielorusso, intervenne a un talk show televisivo lanciando uno strano allarme: Pokemon Go, il più classico degli impieghi della realtà aumentata a fini ludici, sarebbe stato un rischio per la sicurezza militare della Bielorussia. I Pokemon, spiegava Ivanov, sarebbero utilizzati dai servizi di intelligence occidentali per raccogliere informazioni su mezzi e movimenti dell’aviazione. Volete la prova? Il maggior numero di Pokemon nel nostro paese, ha rivelato, sarebbe stato individuato proprio nelle aree in cui si trova la 50° Base aerea combinata, presso Minsk: lì, abbiamo le principali piste dei nostri aerei per le forze aviotrasportate, molti elicotteri da combattimento, e una gran quantità di materiali. Guardiamoci, dunque, dai Pokemon!
Questa idea di tipo paranoide incorpora una delle leggende più recenti concernenti i Pokemon, e, naturalmente, è parte di una serie interminabile di paure riguardanti i passatempi giovanili, paure precipitate negli Anni 80 del Novecento con l’inizio del successo planetario dei board games basati su mazzi di carte e sui mondi alternativi del fantasy.
La vicenda che qui vogliamo raccontare, e che riguarda anch’essa i Pokemon, s’inserisce in quel quadro generale – di leggende e voci sui Pokemon ce ne sono per tutti i gusti –, ma è di tipo differente. A suscitarla, quasi di certo ha contribuito in modo determinante l’alone mitologico che rapidamente è sorto intorno a quel colossale franchise di videogiochi, di anime e di molto altro.
Su questa vicenda esiste un buon numero di analisi. Per l’angolatura dalla quale noi guardiamo alcuni fenomeni – quella degli studiosi del leggendario contemporaneo e del folklore – forse sono utili quelle dello studioso scettico americano Benjamin Radford, molto attivo con il CSI, il Committee for Skeptical Inquiry, pubblicate sulla rivista Skeptical Inquirer (vol. 25, n. 3, maggio-giugno 2001), a cui si aggiunge il bilancio dell’evento e degli studi relativi che ha tracciato nel 2022 per il sito del CSI.
L’episodio che fa ammalare
Alle 18.30 ora locale di martedì 16 dicembre 1997, trentotto stazioni tv giapponesi in network con l’emittente Tokyo TV trasmisero per la prima volta l’episodio n. 38 della prima serie televisiva Pokemon, “Soldato elettrico Porygon”. In questo episodio, a un certo punto, Pikachu, il più celebre dei Pokemon di prima generazione, respinge l’attacco di un virus-bomba usando una serie di intensi flash luminosi. Tutte le fonti di cui disponiamo sostengono che, a quell’ora, un gran numero di bambini e di pre-adolescenti di varie parti del Giappone era davanti ai teleschermi. La serie di lampi balenò sui televisori alle 18.51. Ebbene, entro le 19.30, almeno 618 giovanissimi avevano raggiunto i Pronto soccorso di diversi ospedali lamentando una vastissima gamma di sintomi: dall’emicrania, al vomito, alla diarrea, ai formicolii agli arti, ai sudori freddi – sino a vere e proprie convulsioni.
Alla fine, a parte i 618 casi giunti all’attenzione dei dipartimenti d’urgenza dei nosocomi, i casi complessivamente noti ammontarono a dodicimila circa.
Panico morale
Tokyo TV sospese subito la trasmissione degli episodi successivi della serie: l’interruzione durò quattro mesi. La polizia interrogò i produttori della serie sulle modalità di realizzazione dei programmi. Anche il primo ministro Ryutaro Hashimoto si espresse in maniera preoccupata. Molte famiglie accusarono Tokyo TV di non aver tenuto in conto i potenziali rischi per la salute derivanti da alcune scene, e la catena, quando riprese a trasmettere i Pokemon, fu costretta ad apporre un avviso ai genitori in apertura di ogni episodio.
Ora, il quadro complessivo mostra che, con ogni probabilità, quella sera alcuni bambini affetti da epilessia ebbero delle crisi scatenate dalle luci pulsanti, rapide ed intense, che l’episodio faceva vedere. Il dottor Akinori Hoshika, neurologo del Tokyo Medical College, ne diagnosticò personalmente alcune.
Però la questione era assai più complicata. Nei cartoni giapponesi, quella stessa tecnica usata per l’episodio incriminato, il paka-paka, che alterna colori diversi sotto forma di lampi in maniera rapida, era stata usata già allora centinaia di volte (assai di più, a quanto pare, in serie classiche come Sailor Moon, o Speed Racer). L’episodio n. 38 dei Pokemon non aveva niente di particolarmente nuovo, rispetto ad altri. Certo, la sequenza incriminata, che potete vedere qui, era piuttosto lunga, e forse questo poteva aver generato conseguenze indesiderate. Ma si trattava di poco più di illazioni.
In realtà, un pugno di lavori scientifici sulle presunte conseguenze della trasmissione sulla salute dei bambini sono stati davvero pubblicati. Sono apparsi fra il 1998 e il 1999, di norma ad opera di medici giapponesi, che ne hanno scritto in particolare sugli Annals of Neurology.
I risultati puntano al fatto che, sia pure in numeri ridottissimi, in certi casi l’esposizione alle immagini incriminate potrebbe aver slatentizzato una condizione epilettica fino ad allora rimasta a livello sub-clinico. In un’altra ricerca condotta su una serie di scuole elementari, invece, il numero di bambini che aveva riferito sintomi davvero compatibili con l’epilessia fotosensibile era paragonabile a quello noto per il Giappone a livello nazionale. E così via, sulla stessa falsariga.
A quanto pare, continua Radford, le modalità con le quali i bambini giapponesi a suo tempo fruivano dei programmi tv e gli spazi fisici delle case giapponesi avevano contribuito ad accrescere gli effetti dei flash sui pochi bambini già diagnosticati o su alcuni in condizione subclinica. Spazi piccoli, megaschermi tv, piccoli soggiorni trasformati in mini-cinema, secondo il costume tipico della fine degli Anni 80. Gran parte dei bambini erano soliti guardare la tv da distanze assai ridotte: è documentato un episodio in cui un quattordicenne posto a novanta centimetri da uno schermo da quarantadue pollici avrebbe perso brevemente i sensi appena pochi secondi dopo la sequenza dei lampi.
A mente fredda
Ma come giustificare i numeri colossali che erano stati riportati? In realtà, aveva già notato a suo tempo Benjamin Radford, fin da subito diversi neuropsichiatri infantili giapponesi si erano detti scettici sulla possibilità di un’esplosione collettiva su grande scala e così rapida di epilessia fotosensibile. Lo stesso aveva fatto il dottor Jeffrey Cohen, che a suo tempo dirigeva il Centro per l’epilessia del Beth Israel Hospital di New York, in quegli anni una delle più importanti istituzioni di ricerca per quelle patologie.
Fin da allora, quello che aveva colpito specialisti e studiosi della psicologia collettiva era la presenza di un segno tipico della natura psicogena del complesso degli episodi: sintomi troppo diversi tra loro, vaghi, difficilmente compatibili l’uno con l’altro quanto ad eziologia. Mal di testa, nausea più o meno lieve, ansia grave, timore di morte imminente erano riferiti in gran numero dai soggetti esaminati nei dipartimenti di emergenza o dagli specialisti di medicina generale. Altri sintomi – anche questo è vero – erano invece più suggestivi di alcuni episodi di epilessia, come le convulsioni; altri ancora, che nell’epilessia sono caratteristici, come il mordersi la lingua, erano invece rarissimi.
È stato ancora Radford a notare che, per potersi orientare con fiducia verso una spiegazione di panico di massa con conseguenti sintomi fisiologici, nell’episodio dell’epilessia da Pokemon mancava un elemento davvero importante: la prossimità fisica e, comunque, il rapporto più o meno diretto fra i ragazzini colpiti. Se davvero si trattava di un caso di panico di massa, come avevano fatto i soggetti coinvolti a influenzarsi l’uno con l’altro?
L’analisi successiva ha condotto Radford a scoprire che, in realtà, il gran numero di casi di presunta epilessia fotosensibile conteggiato si riferiva a un arco di tempo relativamente lungo – addirittura, a diversi giorni. La cronologia dei fatti, dunque, è fondamentale: i media giocarono un ruolo di grande rilievo. Entro la giornata successiva alla trasmissione dell’episodio, secondo i resoconti giornalistici i casi erano circa 700. Nelle ore successive, telegiornali e quotidiani portarono la storia nelle case di milioni di famiglie con figli in età scolare. Quelli che non lo appresero in quel modo, ebbero occasione di discuterlo con loro pari, a scuola o nei momenti di gioco, scoprendosi anche loro “colpiti”, ma a posteriori. Entro settantadue ore i casi riferiti erano saliti ai 12.000 di cui si era detto prima. L’impennata si ebbe soltanto dopo che i media televisivi e cartacei avevano descritto i casi “originali”.
Se volete una prospettiva tanto interessante quanto informata sul fatto che è del tutto improbabile che Pikachu, nel 1997, abbia combinato tutti i guai che gli sono stati attribuiti, vi consigliamo questo intervento. È opera di una donna appassionata ed espertissima di anime – ma anche affetta da epilessia. È lei a spiegare, evidenze alla mano, qual è il quadro corrente della ricerca sulla fotosensibilità negli epilettici, e perché, come scrive lei stessa, "Porygon era innocente”.
Infine, come dicevamo in apertura, nel 2022, venticinque anni dopo l’episodio, Benjamin Radford ha rievocato quella sua analisi sul sito del CSI, il Committee for Skeptical Inquiry. Il quadro, per lui, era ormai consolidato. Faceva notare che, in quell’occasione, la letteratura clinica generata dall’episodio e le conoscenze scientifiche sull’epilessia fotosensibile, insieme alla scoperta che il numero di episodi riferiti era funzione della copertura mediatica dell’evento, avevano permesso, tutte insieme, di ricondurre i fatti alla loro realtà. Anche se un piccolo numero di crisi da fotosensibilità si era registrata sul serio, il punto era che
l’incidenza dell’epilessia fotosensibile (PSE) è stimata a circa lo 0,002% della popolazione. A meno che l’incidenza della PSE nella popolazione giapponese non sia maggiore in maniera esponenziale rispetto a quello che sappiamo, alle crisi indotte dall’epilessia non può attribuirsi un numero così alto di “vittime” dei Pokemon (in certi casi, fino a quasi il 7 per cento degli spettatori!).
Insomma: sostenuto dalle paure sui cartoni giapponesi e da una lunga storia di voci e leggende sui giochi per bambini e adolescenti, un episodio rientrante nella norma di quel tipo di patologie si era trasformato in qualcosa di colossale, di fuori controllo e, in sostanza, in qualcosa di “anomalo”. Cosa che non era.
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