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Golia, la balena della CIA

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Articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo


L’ungherese László Krasznahorkai, ormai è arcinoto, ha vinto il Premio Nobel 2025 per la letteratura. La motivazione con la quale gli è stata conferita parla della “sua opera avvincente e visionaria che, nel mezzo del terrore apocalittico, riafferma il potere dell’arte”. 


Krasznahorkai nella sua scrittura non ha fatto sconti a nessuno. Non li ha fatti al comunismo, non li fa all’autoritarismo di Orbán, non li fa ai lettori. Le sue opere sono quasi sempre estremamente complesse, prive di conclusioni e invano vi si cercherebbero dei pensierini facili. È stato detto che la sua letteratura punta a visioni generali, di ampio respiro, persino cosmologiche – comunque sempre spiazzanti. 


Considerazioni che valgono senz’altro per il suo secondo libro, Melancolia della resistenza (Az ellenállás melankóliája, 1989), che ha al centro una storia curiosa: l’arrivo in una piccola comunità ungherese lontana dall’eco delle grandi trasformazioni in atto a Budapest, dove è in corso il crollo della dittatura imposta da Mosca quarant’anni prima, di un circo che trasporta un’unica attrazione, la “balena più grande del mondo”. L’enorme, improbabile animale è il segno più evidente della rottura di un ordine che si credeva immobile, e uno scorcio di un altro mondo che si avvicina – ma segni e significato di ciò che sta per venire non sono per niente chiari e rassicuranti. 


Perché una balena, una balena enorme che fa un tour trainata da un circo, ha un ruolo così importante in un racconto di un premio Nobel per la letteratura? E, non ultimo, al di là della critica al totalitarismo e al conformismo che stanno al cuore della storia, siamo sicuri che quella della balena in tour sia un’operazione di scrittura del tutto scevra dalla realtà?


La risposta è no. Sia pur trasfigurato, al fondo di quella narrazione sta un fatto che, per quanto è dato di ricostruire, durante il regime comunista che dominava l’Ungheria, colpì in modi inaspettati l’immaginazione dei magiari – e non soltanto la loro, ma anche quella di altri europei, e di gente di ogni parte del mondo.


Il Gran tour delle Balene Meravigliose


Alla base del racconto fatto da Krasznahorkai, seppur trasfigurato nel surreale, risiede dunque un evento realmente accaduto. Una vicenda che appare surreale sia quanto il racconto del Nobel ungherese, sia quanto la diceria a sfondo politico che suscitò. 


Nel 1952, al largo di Trondheim, nel nord della Norvegia, alcuni pescherecci arpionarono tre grosse balenottere. Furono portate a terra e, pensando di utilizzarle a fini espositivi, furono drenate del sangue e, perché si conservassero, furono riempite di formalina sotto la direzione di uno zoologo dell’Università di Friburgo. I norvegesi ne rimossero gli organi interni, e poi furono stivate in grandi congelatori. A quel punto, a degli imprenditori venne in mente una trovata da baraccone, destinata però ad avere un successo senza precedenti. Ai tre animali diedero i nomi di Ercole, Golia e Giona, le misero su enormi rimorchi, e decisero di portarle in giro per l’Europa, presentandole come “le più grandi balene mai esistite”. A partire dal 1954 girarono ovunque: qui sono in Gran Bretagna, qui nella Rhodesia Settentrionale, l’odierno Zambia, qui in Francia. In Italia ci sono testimonianze dei loro giri almeno dal 1954 al 1972; in Piemonte, per quanto se ne sa, fu l’imprenditore teatrale Giuseppe Erba (1916-1995) a farla arrivare nell’estate del ‘54: alla fine degli Anni 60, invece, almeno una finta “balena gigante” fu fatta circolare sempre a partire dal Piemonte dal circense Gustavo Cottino (1923-2010), del quale avevamo discusso altrove. Cottino aveva saputo che uno degli esemplari era in Israele, ma l’animale fu danneggiato durante il trasferimento in Italia, e, per questo, al posto dell’originale avrebbe utilizzato una copia.


A parte il libro del Nobel ungherese, che è un capolavoro, un’eco dei tour delle balene si trova senz’altro in La più grande balena morta della Lombardia (2004), di Aldo Nove, nel saggio Leviathan, or The Whale (2008), dell’inglese Philip Hoare, che racconta la sua mania per i cetacei, in La balena di piazza Savoia, di Leopoldo Santovincenzo (2009) e, da ultimo, in Nella balena, di Alessandro Barbaglia (2020). 


La cosa che però ci interessa di più è che, probabilmente a partire più o meno dal 1959, a queste prodigiose balene fu via via concesso di compiere tour nei paesi comunisti dell’Europa orientale – un fatto per niente scontato, vista la generale difficoltà di ottenere visti per quei paesi. A quanto pare, le balene – o perlomeno la balena Golia – toccarono Germania Orientale, Polonia, Jugoslavia, Bulgaria, la stessa Unione Sovietica, e – non ultima, la patria di Krasznahorkai, l’Ungheria. Dal ricordo di quel tour è sorto l’utilizzo narrativo della vicenda da parte dello scrittore. 


Ma è proprio a causa del tour ungherese che, alla vista del cetaceo e del grande veicolo che la trasportava, prese forma anche una serie di voci delle quali Krasznahorkai non parla nel suo libro, ma il cui ricordo è comunque giunto fino ad oggi. Prima di descriverle, bisogna richiamare il contesto nel quale si svilupparono. In altri termini, serve aver presente che cos’era l’Ungheria negli anni che ne videro il sorgere.


Un contesto cupo


Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, occupata dai sovietici, fra il 1945 e il 1948 l’Ungheria si trasformò in una feroce dittatura comunista. Nel 1949, sotto la guida ferrea del segretario del partito comunista, Mátyás Rákosi, la polizia politica probabilmente uccise duemila persone,e,  non ultimo, lo stesso ministro degli interni, László Rajk. La morte di Stalin, e, soprattutto, il processo di destalinizzazione dell’Unione Sovietica avviato nel 1956, diede origine alla breve speranza dell’insurrezione anticomunista dell’ottobre di quell’anno, rapidamente stroncata dall’intervento dell’Armata Rossa. Si calcola che, nei combattimenti di quei giorni, soltanto a Budapest siano rimaste uccise 25.000 persone. 


È questo il quadro nel quale, inevitabilmente, e nel contesto più ampio della Guerra fredda, sorsero voci improbabili di ogni genere, e attività di propaganda e tentativi di destabilizzazione del regime in cui la CIA e altri servizi di sicurezza occidentali, in primo luogo la BND tedesca, ebbero un ruolo fondamentale.


Nell’ottobre del 1954 raggiunse il culmine il lancio di palloni a gas che, a partire dalla Germania, portavano sul paese materiale anticomunista e letteratura occidentale, e sganciavano milioni di volantini che esortavano gli ungheresi all’insurrezione. Vedendoli, spesso gli ungheresi pensarono si trattasse di quei dischi volanti di cui in occidente in quegli stessi mesi si parlava tanto ma che, a causa del clima politico, di norma in Ungheria erano legati da testimoni e organi di stampa a voli di ricognizione di aerei americani, oppure al trasporto di agenti batteriologici, voce che la propaganda sovietica aveva già cercato di accreditare durante la guerra di Corea del 1950-53, che aveva visto contrapporsi il nord comunista e la Cina Popolare alla Corea del Sud filo-occidentale, sostenuta dalle forze statunitensi e di altri paesi alleati. 


Del resto, nei primi Anni 50, cioè al culmine della paranoia stalinista, anche l’Ungheria, come altri paesi sotto controllo sovietico afflitta dalla dorifora delle patate, che danneggiava i raccolti del tubero allora fondamentale per l’alimentazione di quelle popolazioni, aveva diffuso ad arte la voce secondo la quale gli insetti erano lanciati da aerei occidentali. Nel caso ungherese, però, bersaglio principale delle voci non erano i soliti americani, ma gli jugoslavi del regime di Tito: pur anch’essi sotto dittatura comunista, nel ‘48 avevano rotto con Mosca, avvicinandosi agli occidentali e, dunque, diventando invisi ai governi dell’orbita moscovita. 


Tuttavia, fu più tardi, dopo che l’Ungheria, debellata l’insurrezione del 1956 tornò stabilmente sotto Mosca, che iniziò a circolare una voce legata ai tour della balena Golia, quella raccontata da Krasznahorkai in modo magistrale per alludere alla tirannia da cui gli ungheresi stavano per uscire.


La leggenda della balena della CIA 


Le fonti di cui disponiamo sulla storia che ci interessa sono relativamente precarie e, soprattutto, sono rappresentate da ricordi – non sono dunque coeve agli eventi – e in diversi casi sono parte di opere letterarie, basate su racconti di famiglia, o comunque di terza mano.  


Di che cosa si tratta? I grandi rimorchi sui quali era trasportata la balena, e la stessa carcassa, furono sospettati di costituire, in modi diversi, un trucco, un inganno o addirittura una minaccia militare messa in atto dalla NATO, o dalla CIA. Intorno a questo tema generale, per quanto ne sappiamo circolarono versioni assai diverse fra loro. 


Secondo questa versione risalente al 2015, per esempio, in Ungheria – il paese più gettonato, in questa storia – intorno al 1961 la CIA voleva testare la capacità di trasportare missili nucleari sulle strade ungheresi, e così aveva usato i lunghi rimorchi e il cadavere della balena per simulare pesi e lunghezze! In questa variante del 2017, oltre che l’Ungheria, la voce riguarda anche la Cecoslovacchia, e lo scopo è (anche) quello di provare la tenuta dei ponti al transito di mezzi corazzati pesanti, con la scusa della balena. 


Commentando un post Facebook relativo ai giri ungheresi di Golia, nel 2024 un utente scriveva, non è chiaro quanto convinto della realtà delle sue parole:


Per quanto ne so, era parte di una ricognizione militare americana. Le dimensioni del camion erano quasi uguali a quelle di un enorme veicolo lanciarazzi russo, e i capi militari americani volevano saperne di più sulle infrastrutture stradali ungheresi.

In questo scarno panorama, però, la voce più interessante è senz’altro quella di Jean Rezzonico, impresario svizzero, ticinese, che portò in giro Golia (e le sue copie) in giro per l’Europa, dalla Finlandia alla Turchia, dal 1959 al 1977. La sua esperienza è stata raccolta nel 2021 nel libro di Claudia Losi The Whale Theory. Un immaginario animale (Johan & Levi, Monza). Rezzonico spiega che si erano ben presto resi conto che la seconda balena che girava l’Europa occidentale con un altro imprenditore, Giona, aveva saturato il mercato. Era per questo che aveva avuto l’idea, arditissima per i tempi, di spostarsi a est. In maniera inaspettata, gli fu permesso e, in particolare in Ungheria, il successo fu senza paragoni. 



[cit.] Non avevamo bisogno di contrabbandare niente, avevamo molte facilitazioni in quei paesi e tutti i regolari permessi. In particolare nella DDR acquistavamo antichità con tutte le autorizzazioni, molta porcellana pregiata, la porcellana di Meissen, per rivenderla a Berlino Ovest legalmente: non dovevamo rischiare di andare in galera, perché là la galera era dura, ed erano almeno dieci anni.


A Debrecen, in Ungheria sul confine rumeno, un doganiere doveva aver letto qualche giallo di troppo: si era messo in testa che trafficavamo spie per conto della cia, nascoste nella balena. Ci abbiamo messo un giorno intero per passare il confine: hanno smontato tutto, le gomme, i serbatoi della nafta, tutti i cassoni… Hanno tirato fuori tutto, tutto, tutto mentre ci tenevano d’occhio con il mitra spianato. Sono entrati nella balena cercando quello che volevano trovare ma che non c’era, sicuramente non avremmo nascosto qualcosa lì, visto che chiunque pensa che ci sia nascosto qualcosa nella pancia della balena: non c’è mai stato né Giona né nessun altro. [fine cit.]


Visto che si tratta di una testimonianza di prima mano, è possibile che quanto dichiarato nel 2020 al Venerdì di Repubblica dall’autore di Nella balena, Alessandro Barbaglia, che ha collocato una vicenda del tutto analoga “al confine bulgaro”, si riferisca in realtà a quanto riferito da Rezzonico.


Una leggenda diffusa?


Anche così, tuttavia, la sensazione netta che si ricava è che questa leggenda sia circolata un po’ in tutto l’Est europeo. Nel 2017, la scrittrice finlandese di origine rumena Cristina Sandu (n. 1989), nel suo Valas nimeltä Goliat (“Una balena chiamata Golia”) racconta di una trentenne e del rapporto complicato che ha con il suo paese di origine, la Romania – un evidente travestimento della memoria dell’autrice. I ricordi d’infanzia sono agrodolci, mescolati come sono a quelli della tirannia comunista. Nel piccolo paese da cui ha origine la sua famiglia, apprende del tour che negli Anni 60 il balenottero aveva fatto anche a Bucarest. Lì, circolava la voce che il cetaceo nascondesse qualcosa, perché aveva esattamente le stesse dimensioni di un missile balistico. 


Restano molte domande inevase. Come si vede, abbiamo soltanto fonti tarde, di seconda mano, intrise di letteratura e passate attraverso un prisma fortemente mitizzante – quello della balena come simbolo, irruzione della novità, ricordo sognante di infanzie non sempre felici. Siamo convinti che la storia abbia davvero avuto ampia circolazione, e che indagini più serie negli archivi dei quotidiani e dei periodici dell’Europa dell’est e balcanici frutterebbe una ricca messa di informazioni – sempre che la storia non sia già stata esplorata da qualche studioso di quella parte d’Europa.  


Una seconda domanda alla quale non sappiamo rispondere è questa: il contenuto della voce è, in linea di principio, del tutto surreale. Chi lo raccontava, o l’ascoltava nelle sue varianti, vi prestava un qualche credito? Insomma: aveva un qualche successo come voce anti-occidentale, nel contesto della Guerra fredda e del relativo isolamento comunicativo nei confronti dell’Ovest, oppure si trattava di un qualcosa di simile a una barzelletta, a una forma di satira lieve nei confronti della propaganda dei media controllati dallo stato? 


Come dicevamo sopra, comunque sia non abbiamo dubbi: di questa interessante leggenda, finora abbiamo appena grattato la superficie. 


Immagine in evidenza: generata con Microsoft Bing Image Creator




 
 
 

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