Merenda con il topo
- Redazione
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Articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo
Se c’è un animale che - certo non da solo - gode di pessima fama narrativa, quello è il topo. Non si tratta di una fama uniforme, né di un tabù generalizzato. Per esempio, la scrittrice inglese Flora Thompson (1876-1947), nel suo racconto semi-autobiografico Lark Rise to Candleford (1945), scriveva come, quando era bambina, non era raro che ai bambini che avevano enuresi si desse da mangiare, come presunto rimedio, del topo fritto.
Le eccezioni potrebbero continuare, ma ciò non toglie che, almeno in contesto occidentale e nella modernità, il topo sia un animale visto con orrore, e il contatto con esso - se non si tratta di casi in cui l’animale viene tenuto per compagnia - considerato a rischio di impurità. Questo, non soltanto per il rischio sanitario dell’infezione da leptospirosi, ma anche in senso simbolico. A maggior ragione, il tabù vale per l’ingestione del roditore.
Era dunque inevitabile che sui topi, insieme a molte altre leggende, sorgessero racconti di ogni tipo relativi al suo consumo come cibo.
Contaminazioni, volute e non
In generale, il filone in cui rientrano queste storie di consumo alimentare dei topi è quello vastissimo delle leggende sulle contaminazioni alimentari.
Una parte di queste contaminazioni sono di tipo involontario. Si basano sull’idea che i grandi marchi alimentari, quelli che maggiormente vantano la qualità dei loro prodotti, in realtà servirebbero roba pessima - roba che, letteralmente, può arrivare da una fogna. In questo senso, rimane un caso di scuola quello del topo nella lattina di Coca-Cola (o di birra - in questo caso, spesso nella bottiglia).
Naturalmente, i confini tra leggenda è realtà sono labili. Episodi del genere sono accaduti, e accadono: esiste una serie di cause intentate negli Anni 30 del secolo scorso alla Coca-Cola, in un momento in cui il ciclo produttivo della bevanda soffriva di carenze di controlli igienici, con conseguenze negative di ogni genere. All’epoca, topi morti furono davvero scoperti nelle bottiglie destinate al consumo. La cosa interessante di questo genere di storie, e che è da considerarsi come un tratto ricorrente di questi motivi narrativi, è quella che, in un saggio pubblicato nel 1985 sull’American Journal of Folklore, il folklorista Gary Allan Fine ha definito “effetto Golia”. Ciò che accade più spesso è che le contaminazioni siano attribuite non a imprese piccole e medie, ma ai giganti - come la Coca-Cola Inc., appunto - in un evidente segno di sfiducia nei confronti della produzione su grande scala, tendenzialmente monopolista.
In questo caso, la leggenda ha un’origine poligenetica: alcuni casi verificatisi sul serio accompagnano lo sviluppo delle storie infondate, e una cosa non esclude l’altra. Di norma, le narrazioni di tipo leggendario sul topo nella lattina sono caratterizzate da una descrizione dettagliata della reazione orripilata di chi scopre di aver appena bevuto una bevanda contaminata da un topo morto e, nella fase di chiusura, da un esito positivo per chi ha subito il torto dalla grande industria capitalistica. Il risarcimento che la vittima ottiene ha proporzioni colossali, tali spesso da mutare in maniera radicale la sua vita.
In altri termini, non soltanto l’ordine iniziale della situazione narrativa (il cliente che consuma fiducioso la bevanda al tavolino, o nell’intimità di casa sua) viene restaurato, ma, dopo la discesa agli inferi del consumo della pozione orribile, l’uomo qualunque si ritrova ricco per volontà del giudice - naturalmente, con la Coca-Cola che conserva la sua posizione dominante senza che il denaro che dovrà sborsare ne cambi le sorti.
Morire per una lattina
Parzialmente diverso è il senso di un’altra storia falsa di contaminazioni delle lattine dovute ai topi. Se ne è occupato Paolo Toselli nel suo volume Storie di ordinaria falsità (BUR, Milano, 2004, pp. 124-126). Comparsa in Italia soprattutto via mail nel 2002, in realtà proveniva dalla Francia, dove era di solito attribuita alla rivista medica Caducée. Un uomo era morto presso il lago di Ginevra per aver bevuto birra direttamente da una lattina che aveva portato sulla sua barca insieme ad altre. Dei ratti vi avevano urinato sopra, infettandola con i batteri della leptospirosi. Non soltanto Caducée aveva smentito di aver mai dato una notizia del genere, ma nessuna fonte aveva mai riportato un evento simile. D’altro canto, negli Stati Uniti racconti del genere circolavano già da anni, come documentato da Snopes.
Pur trattandosi anche stavolta di una storia falsa, queste versioni sono, per così dire, un po’ depotenziate rispetto a quelle che abbiamo visto e che vedremo nel prosieguo. Non c’è infatti la piena rottura del tabù alimentare, cioè l’ingestione del corpo dell’animale. Quello che accade è che, per imprudenza, e sia pure nell’orrore di chi si ascolta, si viene esposti a un agente patogeno. Più che altro, dunque, siamo di fronte a un cautionary tale, cioè, a un monito a esercitare le migliori norme igieniche, quando si parla di alimenti. Che poi le lattine siano state, in certi casi, oggetto esse stesse di leggende di vario tipo, è un fatto collaterale, che non riguarda il cuore del nostro ragionamento: chi mangia i topi, diventa lui stesso impuro. Ma di solito un’autorità superiore (il tribunale, la polizia) giunge a ripristinare la purità alimentare così gravemente turbata.
Quando il topo non è uno sbaglio
Passiamo ora alle contaminazioni “topesche” di tipo volontario. Sono quelle che più di tutte contengono i caratteri tipici della leggenda contemporanea “nera” che oggi, in gran parte dei casi, si sovrappone bene alla mentalità complottista.
Almeno negli Stati Uniti e in Canada, queste leggende sono documentate almeno dalla fine del Diciannovesimo secolo e, di norma, riguardano il pane prodotto da qualche forno locale - spesso è pane di segale - ma, in questa fase, l’intenzionalità della contaminazione non è sempre chiara. Mano a mano che compariranno le grandi catene per la ristorazione veloce, invece, in maniera più o meno esplicita la volontarietà dell’utilizzo dei topi comincerà a comparire con una certa frequenza. A esserne bersagliati non saranno soltanto, e per lungo tempo, ristoranti cinesi o comunque orientali, ma, negli Stati Uniti, il McDonald, i cui fast food sono stati spesso luogo in cui ambientare la scoperta del topo nella lattina di Coca Cola, e ancor più i locali della catena KFC, che servono a miriadi di persone pollo fritto - tranne quando, naturalmente, la forma dell’animale fritto non fa capire al malcapitato avventore che quella che sta mangiando non è una parte di pollo…
Topi di guerra
L’elemento della volontarietà della contaminazione diventa però davvero decisivo in un altro tipo di storie di questa vasta categoria. Si tratta dei racconti, piuttosto diffusi in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale, sulla vendita da parte delle macellerie di vari tipi di carne di animali (cani, per esempio) spacciata per quelle di uso alimentare consueto. In questo caso, inutile dirlo, l’azione è assolutamente volontaria, criminale e - di norma - scoperta dalle autorità, che la perseguono in maniera decisa.
Avevamo raccontato su Query Online un paio di storie di questo genere, ambientate entrambe a Torino nel 1941. In quel caso, a diffondere voci su un tentativo di spacciare topi per quaglie era stato lo stesso quotidiano del Partito Nazionale Fascista, Il Popolo d’Italia. Ne era nata una piccola polemica giornalistica. Stampa Sera, senza ovviamente citare il quotidiano del partito unico, era intervenuto sostenendo che, dalle verifiche fatte, storie di topi (o di cani) smerciati dalle macellerie erano del tutto infondate.
In questo caso, la ragione del rapido intervento è facile da intuire. Si trattava di rintuzzare voci che con ogni evidenza giravano, e che facevano supporre una carenza di carni bovine, ovine, suine, caprine, ecc. decisamente grave. Era logico per il regime contrastarle senza indugio.
Ora sappiamo che, almeno in Piemonte, quelle dicerie proseguirono per tutta la durata della guerra. I toni usati dalla stampa, tuttavia, danno molto da riflettere.
Il 10 aprile del 1942, la Gazzetta di Asti, dopo aver quasi giustificato con un “sui gusti non si discute” il consumo di carne di topo, che non doveva suscitare “eccessivo stupore”, e nemmeno essere addebitato alla penuria di carne, ormai ammessa senza reticenze, raccontava di un operaio che aveva esagerato. Sosteneva da tempo di aver già mangiato centinaia di topi, senza particolari problemi. Soltanto che, raccoltone uno trovato morto, lo aveva scuoiato e mangiato malgrado le esortazioni a non farlo, finendo gravemente intossicato.
La storia, come dicevamo, dà materiale su cui riflettere. Sarebbe esagerato dire che il settimanale astigiano incoraggiasse a mangiare topi, ma senza dubbio ne considerava in concreto l’eventualità. Fra voci e consumo reale, dettato dal razionamento che ormai si faceva sentire, è difficile trovare il discrimine della realtà. Quello che ci interessa di più, comunque, è il sostanziale abbandono del tabù da parte del giornale. Se proprio deve accadere, sembra dire, che accada con la benedizione pubblica. L’autorità ha il potere di superare il divieto di consumo, e di rendere, se non puro, ammesso ciò che di norma è inammissibile.
Tuttavia, la contaminazione volontaria, durante la guerra poteva tramutarsi anche in metodo di vendetta privata, all’interno del nucleo familiare. Fu ancora la Gazzetta d’Asti, questa volta il 28 ottobre 1944, ossia sotto il dominio della Repubblica Sociale, e a sei mesi scarsi dal crollo definitivo del fronte tedesco, a raccontare una vicenda incresciosa avvenuta ad Asti. Un uomo che era stato invitato a pranzo dal cognato per sistemare finalmente annose questioni d’eredità, dopo un lauto pranzetto “a base di pasta asciutta condita con fegatini e con carne”, venuto a diverbio col parente, s’era sentito rivelare, “per umiliarlo”, che gli era stata fatta mangiare carne di topo. L’uomo avrebbe reagito colpendo il parente con un ferro da stiro al capo, mandandolo in prognosi riservata, per poi darsi alla fuga.
Se, e che cosa sia successo ad Asti nell’autunno del 1944 probabilmente non lo sapremo mai. Quel che conta è che, in questo caso, la presunta vicenda non ha per protagonisti, come di solito è, catene di ristorazione, negozi, macellerie o imprese alimentari. A rendersi responsabile della rottura del tabù, non per sete di denaro, per necessità o per sbaglio nella preparazione rituale dei cibi (che poi è la fondamentale ragione “religiosa” della necessità di evitare errori contaminanti), è una persona comune, e per una questione privata.
Il responsabile, non a caso, è punito con una lesione gravissima. Il privato, soprattutto quando lo fa per livore personale, non può rompere prescrizioni e divieti concernenti il cibo - soprattutto nella cultura italiana che proprio al cibo dà moltissima importanza.
Nel suo Il mondo fino a ieri (l’edizione originale inglese è del 2012), fra le tante affermazioni che hanno fatto aggrottare le sopracciglia agli storici, il biologo Jared Diamond ha anche scritto che durante la Seconda Guerra Mondiale, in Inghilterra il topo mantecato sarebbe stato utilizzato come integrazione delle magre razioni alimentari imposte dall’insufficienza produttiva. Diamond non fornisce fonti a conforto della sua affermazione, ma si direbbe attribuisca la cosa a un’iniziativa ben precisa delle autorità centrali britanniche. Per quanto ci riguarda, anche una cosa del genere corrispondesse a una realtà storica, e non è detto, in realtà il punto rilevante è quello antropologico. Se a giustificare, o ad adottare una misura del genere fosse stata un’autorità, a decidere di sospendere il divieto alimentare sarebbe stata una fonte legittimata a farlo: non di genere religioso, ma di tipo secolare, vista l’era e il contesto culturale.
Ma il fatto è proprio questo: il tabù non può essere infranto dal privato, dal commerciante - tenuto anzi alla “purità” dei cibi - o dal grande imprenditore, mai sazio dei suoi guadagni tanto da abbassare la guardia dei controlli su ciò che propina al pubblico, o addirittura da dare in pasto letteralmente ciò che è tabù ai cittadini. Soltanto chi ha il potere di dichiarare o negare il divieto alimentare può rimuoverlo o confermarlo. Ed è proprio intorno a questi confini, mobili e mai chiari fra puro e impuro, che fioriscono le leggende sui topi dati in pasto a cittadini più o meno ignari.
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