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I ricci, le mele e Gramsci

Aggiornamento: 27 set





Molte astuzie conosce la volpe, una sola, ma grande, il porcospino. (Archiloco)

…Ma se il porcospino ne conoscesse anche un’altra?


Nel 1932, Antonio Gramsci era detenuto presso il carcere di Turi (Bari), ormai da quattro anni. Il Tribunale speciale fascista lo aveva condannato come fondatore del Partito Comunista Italiano, messo fuorilegge come tutti gli altri, e come responsabile di attività cospirative, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all'odio di classe. A Turi, mentre le sue condizioni di salute si deterioravano, Gramsci scriveva; i suoi appunti confluirono poi nei ben noti Quaderni del carcere, pubblicati postumi dopo la Seconda guerra mondiale. Ma agli scritti filosofici e politici, Gramsci affiancava la critica e la ricerca letteraria, e, naturalmente, anche la stesura di corrispondenza privata. Bandite dalla censura le considerazioni anche più vagamente politiche, redigeva lettere intrise di favole ed episodi autobiografici della sua infanzia, che mandava ai figli Delio e Giuliano (quest’ultimo, mai conosciuto). 


Celebre è quella del 22 febbraio 1932 indirizzata al suo primogenito, nato nel 1924, in cui raccontava un curioso aneddoto… su una famiglia di ricci:


Caro Delio, […] Una sera d’autunno quando era già buio, ma splendeva luminosa la luna, sono andato con un altro ragazzo, mio amico, in un campo pieno di alberi da frutto, specialmente di meli. Ci siamo nascosti in un cespuglio, contro vento. Ecco, a un tratto, sbucano i ricci, cinque, due più grossi e tre piccolini. In fila indiana si sono avviati verso i meli, hanno girellato tra l’erba e poi si sono messi al lavoro: aiutandosi coi musetti e con le gambette, facevano ruzzolare le mele, che il vento aveva staccato dagli alberi, e le raccoglievano insieme in uno spiazzetto, ben bene vicino una all’altra. Ma le mele giacenti per terra si vede che non bastavano; il riccio più grande, col muso per aria si guardò attorno, scelse un albero molto curvo e si arrampicò, seguito da sua moglie. Si posarono su un ramo carico e incominciarono a dondolarsi ritmicamente; i loro movimenti si comunicarono al ramo, che oscillò sempre più spesso, con scosse brusche e molte altre mele caddero per terra. Radunate anche queste vicino alle altre, tutti i ricci, grandi e piccoli, si arrotolarono, con gli aculei irti, e si sdraiarono sui frutti, che rimanevano infilzati: chi aveva poche mele infilzate (i riccetti), ma il padre e la madre erano riusciti a infilzare sette o otto mele per ciascuno. Mentre stavano ritornando alla loro tana, noi uscimmo dal nascondiglio, prendemmo i ricci in un sacchetto e ce li portammo a casa. Io ebbi il padre e due riccetti e li tenni molti mesi, liberi, nel cortile; essi davano la caccia a tutti gli animaletti, blatte, maggiolini ecc. e mangiavano frutta e foglie d’insalata.

La storia, raccontata in prima persona, lascia perplessi fin da subito: i ricci sono insettivori, preferiscono vermi e lumache alle mele; e, comunque, anche se occasionalmente possono consumare frutta, non possiedono certo tecniche di “raccolta” così elaborate.


E allora, che cosa era successo? Probabilmente, Gramsci stava rielaborando per il figlio una vecchissima leggenda metropolitana. 


L’idea che i ricci possano rubare mele, acini d’uva e fichi stesi ad essiccare sui graticci rotolandovisi sopra è antichissima: la si trova almeno a partire dalla letteratura greca e romana. Ne parla ad esempio Plinio il Vecchio nella sua Storia naturale, compilata intorno al 77 d.C.:


I ricci conservano anche il cibo per l'inverno: dopo aver rotolato sulle mele cadute, i ricci le fissano così sulla schiena e, tenendo un'altra mela in bocca, le trasferiscono nelle cavità degli alberi.

Questa convenzione, come spiega Tommaso Braccini nel suo Folklore (Inschibboleth, 2021) era condivisa sia dai pepaideuménoi, sia dagli apàideutoi - era, cioè, raccontata sia dalle classi popolari, sia da quelle più colte e raffinate. C’era addirittura chi, come Plutarco nel De sollertia animalium, faceva parlare in prima persona uno dei suoi personaggi, per dichiarare di aver assistito direttamente alla scena - proprio come Gramsci milleottocento anni dopo:


Raffinata è l'attenzione che il porcospino rivolge ai propri cuccioli. In pieno autunno, infilandosi sotto le viti e facendo cadere i grappoli d'uva a terra con le zampe, si rotola su di essi e se li applica addosso sugli aculei. Una volta, quando ero bambino, un porcospino offrì, a me che lo osservavo, lo spettacolo di un grappolo che strisciava e camminava allontanandosi: tanto voluminoso era il suo carico di acini mentre se ne andava in giro! Ebbene, dopo avere raccolto l'uva, la mamma porcospino, intrufolandosi nella sua tana, porse gli acini ai suoi piccoli perché potessero staccarglieli dal dorso e goderne a loro piacimento.

Se per Plinio l’obiettivo principale degli animaletti sono le mele, Plutarco punta invece sull’uva, raccolta anch’essa rotolandosi sugli acini e lasciando che questi si conficchino negli aculei. Lo stesso fa il Fisiologo, opera di ambiente gnostico redatta probabilmente nel II secolo della nostra era ad Alessandria d'Egitto. Fu proprio questo libro, a lungo celebre, a rendere il soggetto un must dei bestiari medievali. Il Fisiologo presentava infatti una serie di descrizioni allegoriche di piante e animali, attribuendo a ciascuno un significato metafisico.


Così, grazie al suo enorme successo, troviamo il nostro riccio rappresentato in numerosi bestiari, con tanto di acini o di mele tra gli aculei. Ne sono esempi le illustrazioni del Bestiario di Rochester (1230-1240) e del Bestiaire divin di Guillaume Le Clerc de Normandie (1210 circa). In queste opere, il riccio diventa l’emblema del diavolo stesso, che con le sue astuzie induce gli uomini in tentazione e ruba i “frutti spirituali” dalla vigna del Signore. Ecco la morale che ne trae Le Clerc:


Buon cristiano, che hai il dono della ragione,/ non dimenticare questo esempio;/ ma guardati dal porcospino. [...]/ Se hai compiuto delle buone azioni,/il diavolo aspetta il momento/ in cui ti può trarre in tentazione, [...]/e si sazia di te, il frutto spirituale ti guasta,/ e distrugge la tua vigna e il tuo meleto./ È così che ti assalta da ogni parte.

…Povero riccio, arruolato a forza nelle schiere del demonio! E per citare un esempio italiano, la storia del porcospino ruba-frutti si trova anche nel Bestiario moralizzato di Gubbio, che risale al 1300 circa. 


Quando lo ricio sente la stasgione ke pò trovare de l’uva matura, ennella vigna va conmo ladrone, e audirete en ke guisa la fura. Nella miliore vite se [re]pone, tanto la bacte et mena oltra mesura, ké le granella sci[à]cina e sconpone, falli cadere nella terra dura, poi se ne scende e vassene voltano, e colle spine molte ne recollie, e vassene con esse a la masgione. Kusì [fa] lo Nemico a lo mundano: poi ke c’è dentro, tanto ce s’avoglie ke lo cunduce a la dannatione.

Bisogna dire che in alcuni dipinti, i porcospini non sono simbolo del male, ma della penitenza. La ragione va ricercata nel Salmo 104, che al versetto 18 recita “Per i camosci sono le alte montagne, le rocce sono rifugio per gli iràci”. Come per altri termini zoologici della Bibbia, l’identificazione di quegli “iràci” è stata a lungo dibattuta, ma per san Girolamo il termine ebraico andava tradotto herinaciis, e dunque si trattava di ricci (o di istrici: anche se sono specie diverse, nell’antichità non si faceva molta differenza tra i due animali). Da qui l’interpretazione di sant’Agostino: le rocce sono il riparo che Dio offre al peccatore che si pente, rintanandosi tra i monti, e, dunque, il riccio è il peccatore penitente che dopo aver rubato le mele decide di espiare i suoi peccati. È per questo che lo si vede comparire in dipinti come le Stimmate di San Francesco di Giovanni del Biondo (1379).


E dire che, probabilmente, l’intera storia dei furti di frutta deriva da un eccesso di immaginazione, nata forse dalla visione di qualche riccio con piccoli frutti o bacche fra gli aculei:


...simili avvistamenti non sono del tutto impossibili, anche se, come da tempo ripetono i naturalisti, sono da imputare al caso (foglie e piccoli frutti - le mele in questione sono quelle selvatiche o simili! - ogni tanto possono effettivamente rimanere infilzati nelle “spine”) più che all’etologia dell’animale, che non fa nulla del genere volontariamente. Il riccio è infatti un insettivoro e alla frutta preferisce vermi, insetti e lumache. La facilità di fraintendimento e la tendenza a umanizzare sempre il comportamento degli animali spiegano però la lunghissima fortuna di questa credenza (Tommaso Braccini, Folklore, Inschibboleth, 2021)

Dall’antica Roma alle mele di Gramsci, una leggenda che ha davvero attraversato i secoli. 


Immagine in evidenza: generata con Microsoft Bing Image Creator 


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