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La leggenda della vipera lattara




articolo di Paolo Toselli


Mino Milani è stato un grande narratore e lo ha dimostrato anche nelle trame de “La realtà romanzesca”, rubrica da lui tenuta tra il 1964  e il 1977 su La Domenica del Corriere e poi raccolta in un volume omonimo. Il connubio tra reale e immaginario è stato di fatto la carta vincente del settimanale milanese fin dai suoi esordi.


Nella storia “La vipera va presa per la gola”, Milani narra il risveglio da incubo vissuto da Tommaso, un cacciatore di vipere, alle prese con i trentatré esemplari che gli erano sfuggiti dal sacco in cui li aveva rinchiusi, ed ora giacevano al caldo nel suo letto assieme a lui. L’uomo, immobile, restava in attesa di sua moglie che come tutte le mattine gli portava la colazione. Finalmente lei arrivò e Tommaso sillabò: “Latte”.


Non ci aveva mai creduto, a quella faccenda delle vipere ghiotte di latte, ma per tutto quel tempo non aveva avuto altro in cui credere. Latte caldo, o la morte! Non poteva più aspettare. Non poteva più farcela, ormai. […]
Maria arrivò. Barcollava. Teneva fra le mani un grande catino colmo di latte fumante. Si fece avanti piano, come se temesse di mettere il piede su qualche vipera. Pose il catino a terra, a un metro dal pagliericcio. Poi si ritirò, e s’appoggiò sconvolta al muro, muovendo le labbra come se pregasse.
E anche Tommaso pregò. E vi fu un silenzio profondissimo, mentre l’odore caldo e antico del latte si spandeva lentamente ovunque; e Tommaso dovette farsi forza, ancora, mentre sentiva un prurito insopportabile in tutto il corpo. Doveva resistere. Forse stava per salvarsi. […]
A una a una, le vipere, richiamate dall’odore del latte caldo, lasciarono il loro assurdo rifugio sotto le coperte. L’uomo aveva chiuso gli occhi, e tremava, adesso, e serrava le mascelle e ricacciava indietro le lacrime. Maria computava, con le dita grosse e callose, contava le vipere, attenta, lesta: “trentuno... trentadue...” […]
L’ultimo rettile s’agitò per un poco sul materasso, poi raggiunse, scivolando piano, le altre vipere. Erano attorno al catino, bevevano; sembravano petali neri e grigi d’un grande fiore mostruoso.
Fu attorno al catino che Tommaso e sua moglie le uccisero a una a una. Le portarono morte al farmacista, gli dissero che se le voleva morte, bene; se no, s’accomodasse pure lui a prenderle vive sulle colline…

Come ogni racconto della rubrica, anche questo era datato con indicata la località: Monte Morrone, sul confine tra Lazio e Abruzzo, nel settembre 1918. Ma come spiega lo stesso Milani in Piccolo destino (Mursia, 2010): 


Cominciai così quel viaggio nel quotidiano imprevedibile. […] 
Giornali, agenzie, racconti sentiti dire, frasi prese al volo mi rivelarono storie incredibili. […]
Confesso che qualche volta, a corto di storie vere, ne raccontavo di fantasia.

Sarà quindi stato un racconto di fantasia o un episodio riportato dalle cronache dell’epoca? Certo è che storie simili erano già apparse come “fatti” sulla carta stampata. Ad esempio, sul quotidiano L’Ordine del 13 ottobre 1909 si legge che un abitante di Trevano, in provincia di Como, sospettando la presenza di un "vivaio di vipere" presso il suo fienile, portò 

un catino di latte ed un momento dopo, fu vista una, poi due vipere, poi altre sbucar fuori dal muro, e strisciando accostarsi con avidità al recipiente del latte.” - E il giornalista precisa: “Al momento in cui scrivo si calcolano oltre 200 le vipere di varie dimensioni, uccise dal colono e dai passanti.

Analogamente, il Corriere della Sera del 21 luglio 1955 in una corrispondenza da Brindisi riferiva la notizia di una donna che, dovendo rinnovare il crine del materasso del lettino di un suo bimbo, scopre 


che una grossa vipera era acciambellata insieme a molte altre viperette, una intera covata, proprio nel mezzo del materasso”. - L’articolo così si concludeva: ”Sembra che il rettile si nutrisse col latte che succhiava dal poppatoio durante la notte: il neonato, infatti, era solito piangere nelle ore notturne, come se fosse affamato.

Sulla leggendaria attrazione dei serpenti per il latte ne avevamo già accennato qui in un articolo di Sofia Lincos. Realtà o semplice credenza?


Un nome diverso per ogni regione


Riscontri si trovano in ogni angolo della nostra penisola. Nel Nuovo dizionario siciliano-italiano redatto a cura del barone Vincenzo Mortillaro e pubblicato a Palermo nel 1838 è contenuta la seguente definizione: “Mpasturavacchi, sorta di serpe lungo che si attorciglia ai piedi della vacca per succhiarne il latte”. Di fatto, in numerose località del Palermitano è diffusa la convinzione che anche il Biacco maggiore (Hierophis viridiflavus) aggredisca le mucche e ne blocchi gli arti posteriori per poi succhiare il latte dalle mammelle.


“Se una vipera beve il latte da una mucca, il vitellino muore”, è la testimonianza di una contadina di 78 anni registrata nel febbraio 1979 a Magliano Alfieri (Cuneo), conservata nel fondo archivistico Antonio Adriano presso il CREO, Centro Ricerca Etnomusica Oralità.


Giorgio Castiglioni nel suo saggio “Sulle tracce del serpente con le zampe” (Studi della biblioteca comunale di Moltrasio, n. 2, 2002) raccoglie numerosi esempi di misteriosi serpenti che si diceva avessero l’abitudine di succhiare il latte dalle mucche, in particolare nella zona dei monti lariani. Ad esempio, in una prefazione alla quarta edizione del 1814 del suo Viaggio da Milano ai tre laghi Maggiore, di Lugano e di Como, il naturalista Carlo Amoretti, a proposito di un misterioso animale noto come “Serpentana” di cui aveva sentito parlare, scriveva:


Si è creduta sin qui favolosa l'esistenza e la storia di lucertoni alpigiani, lunghi due e più metri. […] 
Essi sono innocui, se non che furtivamente succhiano le vacche.

Anche lo svizzero Georg Leonhardi, studioso di cultura popolare e storico, riportò nel suo libro Der Comersee und seine Umgebungen del 1862 ciò che nella zona di Garzeno si diceva a proposito di “lucertoni” la cui descrizione coincideva con quella della "serpentana" e che si intrufolavano nelle stalle a succhiare il latte dalle mucche, da qui chiamati “tetta-vacch”.


Nel volume Memorie istorico-critiche intorno alla vita e alle opere di Monsignore Fra Paolo Piromalli scritto dal canonico Michelangelo Macrì (Napoli, 1824) nel capitolo dedicato all’”istoria naturale sidernate”, ovvero riferita a Siderno, nei pressi di Reggio Calabria, un paragrafo è dedicato alla “serpe lattara”.


E’ biancastra (…), molto avida di latte, quindi ne porta il nome. Va dietro le donne portanti in braccio i bambini, e s’insinua nelle loro culle, ivi dette nache, sospese sotto gli alberi al tempo della mietitura, e suggendo il latte in gola, gli soffoga.

Dalla “serpe lattara” al “bosom serpent”


E’ interessante constatare come in questo testo il rettile arrivi ad introdursi nelle bocche dei lattanti, fornendo un collegamento con la diffusa narrazione folklorica nota come “bosom serpent”, traducibile come il “serpente nello stomaco”.

Ma ancor più singolare è un’altra credenza che ribalta il rapporto tra questi animali e gli infanti. Olao Magno, arcivescovo metropolita di Uppsala, nel 1555 dà alle stampe la sua opera principale, tradotta in italiano come Historia delle genti et della natura delle cose settentrionali e pubblicata a Venezia nel 1565. L’argomento principale è la descrizione degli usi, credenze e istituzioni degli abitanti della Svezia. Nel capitolo “Del combattere de’ pastori contra li serpenti” si legge:


Sono ancora certi serpenti domestici, e familiari, li quali ne le estreme parti d’Aquilone, sono tenuti come Dei penati, li quali nutriti con latte di vacca o di pecora, scherzano con li fanciulli dentro alle case, e spesso come fidi custodi si veggono seco dormire dentro a le culle, e se alcuno questi offendesse, è tenuto impio. Ma questi costumi sono reliquie de le superstizioni antiche, li quali dopo che hano preso la fede Catholica, sono stati al tutto vietati.

Queste narrazioni ci fanno ritenere che nei tempi passati era normale una certa coabitazione, o perlomeno una “prossimità”, tra serpi e uomini. Riferendosi al “Pasturavacche”, l’erpetologo Silvio Bruno in un suo contributo alla “Fantazoologia nella tradizione popolare” pubblicato nell’annuario Umanesimo della Pietra-Verde (n. 6, gennaio 1991), sottolinea come:


Queste curiose dicerie sui serpenti, oggi meno in disuso di altre, sono tipiche espressioni tradizionali di una cultura agricola subalterna e risalgono a quando la vita famigliare si svolgeva, a casa, in una sola stanza, la stalla, perché era l’unica calda anche d’inverno. Allora le stalle erano visitate abitualmente da serpenti per motivi trofici (ricercavano i topi di cui si nutrivano), riproduttivi (le femmine deponevano le uova sotto la paglia o il letame) e termici (adulti e giovani svernavano sotto le stoppie). I serpenti erano praticamente di casa e quindi è naturale che siano diventati i protagonisti di gustosi aneddoti, le cui origini si perdono nella notte dei tempi.

L’archeologa Arianna Santini in un articolo del 2021 sul blog “Vitis Sapientiae” in una sezione dedicata agli “animali fantastici”,, riferisce come nelle campagne intorno ad Amatrice, in provincia di Rieti, sia ancora vivo il ricordo di un rettile, considerato pacifico in quanto si limitava solo a bere un po’ di latte  dalle mucche, denominato “impastoravacche”, dove il dialettale “pastora” significa “pastoia”, ovvero la corda usata dai mandriani per legare le zampe degli animali al pascolo per evitare che si allontanino. Invece a Castiglione in Teverina, in provincia di Viterbo, il “serpente vaccaio” ruberebbe il latte anche alle puerpere durante il sonno o addirittura insinuandosi nella bocca del neonato. Secondo Santini, quest’ultima narrazione, “sarebbe ‘un’arma’ femminile per giustificare la carenza di latte e fuggire alle accuse dei compaesani. (…) Stesso discorso per la ricorrente piaga della fame che colpiva le nostre campagne e le nostre montagne e che lasciava molte culle vuote. I bambini nascevano, ma deperivano fino a morire perché le madri stesse avevano fame e il loro latte era poco nutrie


La critica alla credenza


Per tornare all’attinenza tra serpe lattara e “bosom serpent” è curioso un esempio riportato nella terza edizione del 1845 del Catechismo cattolico-dogmatico-morale per la pratica della dotttrina cristiana. Una delle “Istruzioni” è intitolata “Sopra la Confessione de’ peccati”.

E’ noto dagli Scrittori il fatto d’un contadino, che dormendo un giorno all’aperto sull’erba d’un campo, una vipera gli entrò per la bocca, che teneva in dormire aperta, e s’insinuò nello stomaco. Risvegliatosi, ed accortosi, dalle convulsioni mortali che incominciava a sentire, qual ospite aveva nel petto, con tutta la sollecitudine cominciò a pensare e ripensare con qual mezzo si potesse liberare da un sì mortale pericolo; e trovò questo rimedio, di farsi appendere coi piedi all’insù, e sotto al mento ed alla bocca aperta sottoporre un catino di latte, di cui quell’animale va ingordo; che in tal forma sarebbesi liberato. Così fu stabilito e fatto; e per appunto subito uscì la vipera, e restò il paziente dalla morte preservato. 
Codesto avvenimento spiega in similitudine il caso nostro. Un Cristiano che gravemente ha peccato, ha inghiottito nell’anima un basilisco il più terribile che mai trovar si possa sulla terra; ora che rimedio può aversi per liberarlo dalla morte sempiterna, che sta in atto di arrecargli? Non altro si trova nella presente providenza, se non che dolente aprir la bocca colla confessione del suo peccato, e nel bagno del sangue preziosissimo del Redentore, che ha istituito nel Sacramento della Penitenza, se n’esca, si uccida, s’annulli.

Che dire? Pare proprio trovarsi di fronte ad una sorta di exemplum, un genere letterario molto utilizzato nel medioevo, specie dai predicatori. Tra l’altro, alcune di queste narrazioni sono arrivate sino ai giorni nostri attualizzate in classiche leggende metropolitane. In questo caso, si utilizza un racconto confacente col pensiero delle popolazioni delle aree rurali da esempio per sottolineare l’importanza del sacramento della confessione e della penitenza. E a tal proposito, è interessante un articolo apparso su La Lanterna Pinerolese, periodico locale fondato con intenti positivistici e anticlericali, del 27 novembre 1897.


Nella sezione “Corriere di Cumiana” si criticano i predicatori e “chi ha la missione di istruire le masse nelle cose della religione”, poiché non riescono a farsi comprendere dal contadino, “che non è più quel zoticone d’una volta”. E prosegue:


Il popolo ha bisogno di essere rialzato, non abbassato o incretinito nelle volgari credenze in urto con la scienza. Le storielle delle 117 vipere ghiotte del latte le raccontavano nell’altro secolo le nonne le quali, poverine, non sapevano ancora che di ottanta specie di serpenti velenosi, fra cui le vipere, e di 233 non velenosi, anzi innocenti creature che ci recano dei grandi vantaggi perché ci liberano da innumerevoli insetti nocivi, dai topi, dalle talpe e simili, nessuno che si sappia ha mai poppato, perché a questi poveri animali, appena nati, il buon Dio ha insegnato di correr tosto a cercarsi il vitto.

Una storia lunga 200 anni


Non è chiaro a cosa si riferisse la “storiella”. Potrebbe essere una specie di “parabola”, e non a caso nella Raccolta di parabole nelle quali si propongono con pari vantaggio, che diletto le massime e le verità più interessanti della cattolica religione stampata a Roma nel 1798 ne ritroviamo una dal titolo “Il Cacciatore di Vipere”, dove si narra proprio di un uomo di campagna molto abile a prendere le vipere che poi mandava allo speziale. Un giorno riuscì a catturarne ben centocinquanta. Tornato a casa le mise in un barile, ma essendo molto stanco non le chiuse con cura. Così, il mattino dopo, si risvegliò nel letto circondato dalle vipere. Giunta la serva, chiese a lei di prendere il caldaio e riempirlo di latte tiepido. Posto il recipiente in mezzo alla stanza, tutte quante si gettarono nel latte. L’uomo, una dopo l’altra, tagliò loro la testa. Da quel giorno smise con la caccia alle vipere, anzi “non le poté più sentir nominare”.


Come non riscontrare un’affinità, se non una sorprendente corrispondenza, con la storia narrata da Mino Milani nella sua “realtà romanzesca” quasi duecento anni dopo! Tant’è che doveva essere una sorta di “storia esemplare”, in quanto analoga narrazione la si ritrova citata in un “proponimento” per il “giovane preparato alla prima comunione” a firma del prevosto Onorato Colletti, all’interno de Il catechista cattolico, periodico del comitato permanente del primo congresso catechistico datato 15 settembre 1891. Invece, con riferimento all’articolo de La Lanterna Pinerolese, ciò che risulta significativo è che già alla fine del diciannovesimo secolo storie simili erano considerate, almeno da chi aveva una visione critica, semplici credenze senza consistenza. In effetti, nel volume Dei pregiudizi popolari intorno agli animali del 1853 a proposito dell’affermazione “i serpenti si attaccano talvolta ai capezzoli delle vacche e ne succhiano il latte, di cui sono ghiottissimi”, il naturalista e zoologo Giuseppe Gené scriveva:

Noi cominciamo dal negare che i serpenti amino ed appetiscano il latte a ciò indotti dal risultamento di molte e molte prove da noi fatte con ogni possibile diligenza: neghiamo quindi che vadano a succhiarlo dalle vacche. Può darsi, benché da noi non si creda, che, come fu le cento volte narrato, siasi qualche biscia attaccata ne’ pascoli o nelle stalle ai capezzoli delle vacche; ma se il fatto è vero, noi lo reputiamo male interpretato riguardo all’intenzione.

Il naturalista precisava inoltre che “il loro alimento consiste unicamente e senza eccezione di sorta alcuna nelle carni di animali vivi che esse addentano ad una delle estremità e che inghiottono interi”, e aggiungeva come “l’azione del poppare sia fisicamente impossibile ai serpenti, lo dimostrano la struttura generale delle parti della bocca e il modo e le vie di respirazione”.


Insomma, che le vipere o i serpenti siano ghiotti di latte è un’antica credenza che non ha riscontri nella realtà, ma sono ancora molti a ritenerla vera, tant’è che in un articolo intitolato “Come allontanare da casa i rettili e preparare delle facili trappole” pubblicato sul Corriere della Sera del 15 agosto 1978 veniva proprio consigliato il latte come esca per catturare una vipera o accertarsi che non ve ne siano nascoste.


Immagine in evidenza: generata con Microsoft Bing Image Creator 


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