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I valdesi dai denti pelosi


La valdese Anna Charbonnier, uccisa dai soldati cattolici in Val Pellice nel 1655.

articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo


Brutti e cattivi. Anzi, cattivi e di conseguenza brutti, mostruosi, a malapena umani. È questo il leit motiv di molte leggende di guerra, in cui il nemico di turno viene dipinto come un animale, oppure con tratti somatici deformi e raccapriccianti.


Pensiamo anche soltanto ai manifesti di propaganda che circolavano negli Stati Uniti durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. In uno di questi - piuttosto famoso - il nemico è una scimmia con i mustacchi "da tedesco" e l’elmo a punta. Rappresentazioni simili, inutile ricordarlo, circolavano in ogni Paese, e anche da noi. Se questi esempi possono essere spiegati con la necessità "moderna" di consolidare il fronte interno contro l’avversario delle guerra totali, che dire quando queste convinzioni sulla mostruosità del nemico si insinuano nell’immaginario collettivo e diventano leggenda metropolitana, e con quelle s'intrecciano?


È accaduto mille volte, nella storia. Oggi vi presentiamo due di questi casi. Il primo, italiano, ha per sfondo le lunghe lotte tra cattolici e valdesi, minoranza religiosa protestante che per secoli, prima che l’idea di libertà di coscienza prevalesse, fu oggetto di crociate, massacri e persecuzioni.


I valdesi come minoranza intollerabile


I valdesi iniziano la loro storia intorno al 1170, nella Francia sud-occidentale. Sono un movimento pauperista, che vorrebbe la predicazione del Vangelo da parte di tutti, e non solo del clero. Per queste idee, in forte contrasto con la chiesa cattolica, sono fin da subito oggetto di processi, uccisioni e sanzioni di ogni genere. Nel Quattrocento sono un movimento di riforma piuttosto diffuso in parecchi Paesi europei, e sempre più oggetto di violenze e ai margini della chiesa di Roma. Le loro idee annunciano la grande rivoluzione religiosa del secolo successivo, quella Riforma protestante che plasmerà la storia europea a partire dal 1517.


Nel 1532, in effetti, i valdesi sono fra i primi gruppi religiosi europei ad aderire alla Riforma. Diventati una chiesa protestante di tipo calvinista, però, si trovarono a fare ormai in pieno le spese delle guerre di religione che devastarono l’Europa sino alla seconda metà del Seicento.


Gli anni fra il 1655 e il 1688 sono quelli della persecuzione più feroce: i valdesi sopravvivono per il rotto della cuffia al tentativo di eradicamento definitivo operato dai Savoia, con ripetuti massacri e l’espulsione dei sopravvissuti verso i cantoni protestanti svizzeri. Dopo il 1689 (anno della Gloriouse réntree, condotta a tappe forzate dalla Confederazione elvetica), cominciano a vivere in condizioni di minima tolleranza nelle valli del Piemonte occidentale: non possono diventare giudici o ufficiali dell’esercito, comprare terreni al di fuori delle valli in cui sono stati relegati, votare gli amministratori locali, devono seppellire i loro morti di notte, privatamente... Solo l’influenza delle idee di libertà religiosa della Rivoluzione francese, le insurrezioni democratiche europee del 1848 e la concessione dello Statuto da parte di Carlo Alberto permettono finalmente, dal 17 febbraio 1848, l’accesso dei valdesi (e degli ebrei) alle piene libertà politiche e civili. Da allora, i protestanti del nostro Paese cominciano ad aprire chiese dapprima in Piemonte e poi, dopo l’unità, nel resto d’Italia (non senza tragiche resistenze da parte cattolica); la piena libertà di culto per tutti gli italiani arriverà con la Costituzione democratica del 1948.


È in questa secolare vicenda di scontro totale che, ben prima della loro adesione al Protestantesimo, i valdesi cominciarono ad essere oggetto una serie di dicerie. Le voci erano innumerevoli e, fatte le dovute proporzioni, fanno il paio con quelle attribuite all’altra irriducibile minoranza religiosa italiana: gli ebrei.


Un esempio per tutti: in anni recenti è diventata piuttosto famosa un’immagine presente a margine di un manoscritto francese del 1451, Le champion des dames, opera del chierico ed inquisitore francese Martin Le Franc. A sinistra di una pagina, sono rappresentate due donne valdesi (chiaramente identificate dalla scritta des vaudoises) che volano a cavallo di scope.


Tuttavia, per quanto dotate di strani poteri, per quanto fuori dalla dottrina cattolica (e, per di più, atte alla predicazione pur essendo donne), in quell’immagine le valdesi sono rappresentate come persone normali, in abiti del tempo: al massimo, sembrano sogghignare un po’. Traviate, sì, da processare (e, se necessario, mettere a morte), ma, comunque, appartenenti ad un ordine naturale delle cose umane.


Non sarà sempre così. Alcune dicerie su una presunta mostruosità fisica dei protestanti arriveranno quasi intatte al Diciannovesimo secolo.


Occhi per spiare, denti per mordere


Non osservai nulla di diverso, nell’aspetto della gente del popolo e dei campagnuoli, dal tipo comune piemontese [...]. Noi, in un breve giro, incontrammo parecchi ragazzi bellissimi, punto somiglianti a quelli che credeva di trovare tra gli eretici il duca Carlo II, con un occhio in mezzo alla fronte, e sei file di denti pelosi.

A scrivere in questi termini, divertiti e bonari, dei valdesi piemontesi è il laico, massone, socialista Edmondo De Amicis in una delle sue opere forse meno note, Alle porte d’Italia. Uscito nel 1884 presso l’editore Sommaruga di Roma, documentava le sue impressioni dopo un anno di residenza a Pinerolo, con considerazioni sulla cittadina e sui dintorni, e quindi anche sui contatti con la minoranza protestante che, in quegli anni, cominciava ad aprire piccole chiese e comunità fuori dallo storico recinto delle valli torinesi.


Nelle parole di De Amicis, quindi, sarebbe stato lo stesso regnante del ducato di Savoia e del principato di Piemonte, Carlo II, a credere a quelle dicerie bislacche sui suoi sudditi riottosi. Carlo II governò dal 1504 sino alla sua morte, nel 1553, e dunque l’aneddoto sarebbe da collocare in quegli anni.


Ma da dove traeva lo scrittore quell’aneddoto che lo lasciava fra il divertito e l’indignato? Per quanto se ne sa, a raccontarlo fu un pastore valdese di Angrogna (val Pellice), Girolamo Miolo, nella sua Historia breve & vera de gl’affari de i Valdesi delle Valli. Da un manoscritto conservato a Cambridge, il testo risalirebbe al 1587. Un capitolo riguarda proprio la zona di Angrogna: vi si discutono soprattutto le vicende militari valdesi-cattoliche di quell’area fra gli ultimi anni del Quattrocento e il 1561. È proprio nel 1561, per la prima volta, i due schieramenti raggiunsero un accordo di tregua (il trattato di Cavour del 1561): per quanto di breve durata, sarà il primo tentativo europeo di stabilire una convivenza pacifica fra cattolici e protestanti.


Miolo descrive uno degli scontri avvenuti presso Angrogna, in occasione del quale caddero due ufficiali cattolici: Guglielmo Sacchetti, di Polonghera (Cuneo) e “il Negro da Mondevì” (probabilmente da identificarsi con un ufficiale genovese, il capitano Animanegra, che nel 1491 era di stanza a Mondovì al servizio del duca di Savoia).


Di questo scontro si è occupato uno storico valdese, Mario Cignoni, in un saggio pubblicato nel volume Con o senza le armi. Controversistica religiosa e resistenza armata nell’Italia moderna (Claudiana, Torino, 2008). Cignoni mette in discussione la collocazione dello scontro fatta da altri storici intorno al 1494: il combattimento sarebbe avvenuto parecchi anni più tardi, ai primi del Cinquecento, e Animanegra sarebbe morto dopo il 1494. Se ci soffermiamo su questo problema di date è perché, spostando in avanti il momento del fatto, si riuscirebbe a capire l’identificazione del duca di Savoia fatta da De Amicis: come detto, Carlo II salì al potere nel 1504.


Ma ecco il nostro episodio. Al termine degli scontri, il duca avrebbe ricevuto una richiesta di udienza, da parte di alcuni valdesi:


[...] il quale gl’accettò benignamente facendogli gratia et rimessione d’ogni cosa a lor imputata, et perché falsamente i detti Valdesi erano incolpati di varii crimi, et di essere persone diverse a gl’altri huomini come che havessero de i corni in testa, et quatro gricie di denti et essi denti pelosi, S. Altezza comandò che gli fossero condotti de i figliuoli Valdesi per vedere s’erano come gl’altri. Laonde havendogli ritrovati et riconosciuti di forma et aspetto belissimo come qualunque altre persone, detta S. Alt. dechiarò ch’ella era stata mal informata del stato di detti poveri Valdesi.

Dunque, Carlo II, fra un massacro e un altro di protestanti piemontesi, avrebbe trovato il tempo per darsi al fact checking, verificando di persona che le voci sull’aspetto demoniaco dei valdesi (corni in testa, denti pelosi) non avevano fondamento.


Secondo Cignoni, si tratta di una cattiva traduzione dal francese: quel gricie sarebbe in realtà da leggersi come gris, grigi. Spiega lo studioso:


Quindi l’intera frase che accusa i valdesi di essere «persone diverse a gl’altri huomini come che havessero de i corni in testa, et quatro gricie di denti et essi denti pelosi» sarebbe da leggere più correttamente: avevano «quattro denti grigi in bocca, ed essi stessi [i valdesi] erano pelosi». Erano cioè accusati di essere come degli gnomi o dei diavoli (corna, quattro denti, corpo peloso).

Ma insomma, che fossero pelosi i denti o i valdesi stessi, poco cambia: erano esseri mostruosi, anormali, diversi dai cattolici che costituivano il solo popolo di Dio.


La cronaca del pastore Miolo, peraltro, è curiosa. Sbeffeggia la leggenda nera che circolava, ma, al contempo, sottolinea l’episodio che ha per protagonista il leader degli arcinemici: questi si fa portare davanti i ragazzini valdesi che constata essere “di forma et aspetto belissimo”. Apprendiamo che era stato “mal informato” - letteralmente, aveva rischiato di dar ascolto alla misinformation.


Miolo, dunque, distingue due livelli: le voci popolari e la realtà verificata dal principe cattolico, che si mostra in grado di sottrarsi alle voci.


A noi pare sia difficile dire perché il pastore Miolo racconti la diceria in quei termini. Forse, per motivi tattici, gli premeva far intuire che chi governava, se di buona volontà, sarebbe stato in grado di effettuare controlli di realtà - e quindi, in maniera autorevole, di tracciare un solco al di là del quale, perlomeno, la minoranza perseguitata poteva sentirsi, se non riconosciuta nella sua libertà, almeno annoverata fra i sudditi fedeli. Quei sudditi fedeli, sembra quasi voler dire Miolo, chiedevano soltanto di esser lasciati in pace nel loro angolino di Piemonte: era impossibile, e indegno di lui, che un sovrano credesse che potessero rappresentare un pericolo.


I nordcoreani come mostri


Certo, i valdesi non sono stati gli unici ad essere rappresentati come mostri cornuti: spostiamoci in avanti di cinque secoli e ruotiamo il mappamondo. Tempi, culture, epoche assolutamente diverse dall’Europa delle guerre di religione... Ma la cornice è sempre quella di un conflitto mortale.


Fra il 1950 e il 1953, al culmine della prima Guerra Fredda, la penisola coreana è devastata dalla guerra fra forze occidentali e forze comuniste del nord, appoggiate in modo diretto dalla Cina di Mao. Il sud, sostenuto dagli americani, resiste alla spinta militare e riesce a sopravvivere.


In questo quadro, in Corea del Sud fanno la loro comparsa alcune storie bizzarre che dipingono i nordcoreani come mostri, nel senso letterale del termine.


La necessità di indottrinare i giovani in senso anticomunista indusse le autorità di Seul a intensificare la propaganda nelle scuole (ricordiamo che a quei tempi, pur non potendosi paragonare alla tirannia del Nord, anche la Corea del Sud non era un Paese democratico). E così, negli istituti , soprattutto negli anni ‘60, cominciarono a circolare storie assolutamente false non tanto sul regime nemico, ma sui suoi abitanti.


In anni recenti alcune ricerche sulla memoria di coloro che erano giovani in quegli anni hanno documentato meglio la natura di quelle storie, e, in particolare, il fatto che al Sud si pensava che i nord-coreani... avessero le corna. Un docente di pedagogia alla National University di Seul, il professor Park Sung-Cheng, ha confermato lui stesso, discutendo l’argomento, la diffusione di questa diceria: erano cose risapute, di cui si parlava correntemente, perlomeno nel periodo della sua infanzia e fino alle scuole superiori; e anche lui, in una certa misura, aveva creduto a quelle assurdità.


I programmi scolastici, che avevano fatto proprie storie di questo tipo a fini propagandistici, furono sostituiti da altri più moderni solo nel 1988. La nuova politica sudcoreana sperava in una riunificazione pacifica, o almeno nell’impossibilità di una nuova guerra. Per quanto è possibile documentare, però, le voci sui nordcoreani cornuti continuarono a circolare a lungo anche dopo quel cambio di linea. Alla tenuta della diceria, nota il professor Park, contribuiva anche l’assoluta impermeabilità dei confini nordcoreani, che rendeva difficili verificare sia le leggende metropolitane sia la propaganda sul nord - e dunque anche le storie a carattere più fantasioso.


Tuttavia, un punto centrale rimane. Esso accomuna le storie sui nordcoreani a quelle sui valdesi: la disumanizzazione del nemico. Se considerate in modo isolato, queste voci possono apparire estreme, troppo sopra le righe per poter esser credute (e, dunque, incapaci di trasformarsi in comportamenti discriminatori concreti). Eppure, in realtà, è proprio quel genere di leggende assolutamente incredibili che permette di mobilitare socialmente i gruppi nel corso di un conflitto.


Privando l'Altro della sua umanità, raccontando storie su corna, code, occhi, denti pelosi, voli sulle scope, zoccoli caprini, riti orgiastici, sanguinari, cannibali... diventa assai più facile, per i professionisti del potere e della manipolazione, indurre ad alzare la mano contro altri uomini e altre donne. Un potenziale di violenza altissimo, a malapena celato dietro il racconto proprio della leggenda, sempre pronto a riesplodere.

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