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L'oleandro traditore

Immagine del redattore: RedazioneRedazione

Aggiornamento: 6 giu 2024



Articolo di Sofia Lincos

Estate, tempo di campeggi, di grigliate e di spiedini mangiati intorno al fuoco... Ma non tutti i barbecue sono innocui quanto ci si aspetterebbe:


"Per me fra un po' è pronta anche subito. M'è venuta una fame!" disse Vincenzo. Prese una fetta di pane e vi appoggiò la salsiccia. Il grido di Pietro gli bloccò il morso a metà: "Nooo! Fermati!" Poi agli altri che lo guardavano stupiti: "Con cosa avete fatto gli spiedini?". Vincenzo si tolse il pane di bocca: "Di', sei scemo?". "Con cosa avete fatto gli spiedini?" ripeté Pietro. "Boh, con i rami di quell'albero lì. Perché, cosa ti salta in mente?" "Ho letto che durante la campagna di Napoleone in Spagna dei soldati son morti perché han mangiato della carne infilata in spiedini d'oleandro e l'oleandro è velenoso. Son morti avvelenati." Tutti sollevarono gli spiedini e li guardarono.

Questa scena si trova in Appennino di sangue (Mondadori, 2012), una raccolta di tre gialli di Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli (per vostra tranquillità, vi sveliamo che il legno utilizzato era assolutamente innocuo). L’episodio dei soldati morti per aver cotto gli spiedini su rami di oleandro, comunque, è una storia antica, diffusa almeno dal Diciannovesimo secolo.


Nelle versioni moderne la vicenda è presentata di solito come una tragica fatalità accaduta ad un gruppo di scout o a una famigliola in campeggio


Una squadriglia di boy-scouts in campeggio (nessuno sa dire dove, esattamente) decide di arrostire degli hot dog/marshmallow. Tagliano alcuni rami per ciascuno, mettono sul fuoco gli spiedini e ne mangiano il contenuto. La mattina dopo sono tutti morti, perché hanno usato rami di oleandro per il barbecue, e come sa anche il più ritardato, l'oleandro è un veleno mortale (dov'era il capo scout?). [Da Snopes, raccolta nel 1999]

Snopes riporta versioni della storia provenienti dagli Stati Uniti e dall’Australia, ma la leggenda è presente anche nella vecchia Europa. Si tratta evidentemente di un cautionary tale, un racconto diffuso per mettere in guardia gli ascoltatori contro un potenziale pericolo (in questo caso, il veleno di oleandro). In alcune varianti della leggenda il legno non è usato per gli spiedi, ma soltanto per alimentare il fuoco: il fumo sprigionato è sufficiente a rendere tossica in misura mortale la carne cotta. Per il celebre sito acchiappabufale americano nella storia sono presenti alcuni degli elementi più tipici delle leggende metropolitane: il fatto che i protagonisti siano gente simpatica e con cui ci si possa identificare, la scoperta "a sorpresa" finale, l'esagerazione del numero di vittime (l’intera squadriglia scout è sterminata).


Nelle versioni più antiche della storia, invece, i protagonisti sono in genere soldati impegnati in qualche campagna militare. Tanto per fare qualche esempio: secondo il Corriere della Sera, l'avvelenamento avrebbe riguardato le truppe di Napoleone in Egitto, per Repubblica invece sarebbe avvenuto nell'odierna Repubblica Ceca, subito dopo la battaglia di Austerlitz. C'è però chi preferisce ambientare la storia in Spagna, e chi, come Wikipedia (versione del 7 agosto 2019), la colloca "durante le campagne militari in Italia". La stessa scena sarebbe accaduta, forse, anche alle truppe di Alessandro il Grande.


Nell'Ottocento il racconto dei soldati uccisi dallo spiedo di oleandro era ripetuto anche dagli eruditi. Prova ne è il Corso di botanica medico-farmaceutica e di materia medica (1847) del medico Antonio Targioni-Tozzetti (1785-1856):


Che riesca venefico negli uomini, resulta da molte osservazioni mediche, giacchè recentemente accadde il veneficio nell'Algeria in diversi soldati francesi, per aver mangiato una farinata d'orzo, stata rimescolata con una bacchetta di nerio, e molto più addietro accadde in Corsica e a Madrid, dove restarono avvelenati altri militari per aver cotto degli uccelletti o della carne arrosto, in spiedi fatti con bacchette di nerio. [...] Il Pona forse esagerò quando disse, che non solamente uccide chi ne mangia, ma che ammala anche chi dorme alla di lui ombra.

Eh, sì, decisamente un po' troppo.


L'episodio della Corsica, per inciso, sarebbe avvenuto nel 1769, ai tempi della conquista francese dell'isola, mentre quello di Madrid nel 1809 (avrebbe portato al decesso di sette soldati napoleonici e a sintomi di avvelenamento in altri cinque).

Ma non ci sono solo gli spiedi. Un libro di Giovanni Appendino ed altri autori (Piante velenose, Araba Fenice, Boves, 2011) definisce "altrettanto dubbie" le storie di animali morti per aver bevuto da pozzanghere in cui era caduta una foglia di oleandro.


Andando più indietro nel tempo, nella Storia naturale Plinio racconta di un miele fatto da api che succhiano il nettare di fiori velenosi. L'episodio sarebbe avvenuto nella regione del Ponto, nell’odierna Turchia, e il miele tossico sarebbe stato lasciato come "trappola" per l'esercito invasore in arrivo. Ebbene, in alcune versioni di questa storia i fiori sono quelli dell'oleandro, anche se questo non è possibile, dal momento che quelli di questa pianta non danno nettare. E' possibile che Plinio si riferisse invece al rododendro, con cui in Turchia viene ancora oggi prodotto un miele allucinogeno. Il fatto che in alcuni testi si sia scelto di tradurre il termine botanico come "oleandro", però, la dice lunga sul folklore legato a questa pianta. Dubbi simili sarebbero sorti sull'identità di una pianta menzionata da Teofrasto, che avrebbe portato alla morte diversi animali durante le campagne militari di Alessandro il Grande.


A prescindere da questa aura malevola antica, occorre dire che la paura dell'oleandro è tuttora diffusa negli Stati Uniti, forse ancor più che da noi. Oltre che nel già citato caso dei boy-scout, una storia di avvelenamento da questa pianta compare anche nelle leggende legate alla Myrtles Plantation della Louisiana, protagonista nel 2002 di un servizio di Unsolved Mysteries e nel 2005 di un episodio di Ghost Hunters. Nella tenuta aleggerebbe infatti il fantasma di una schiava di nome Chloe: la donna avrebbe cucinato una torta per ingraziarsi la famiglia del suo padrone, ma nell’impasto avrebbe messo anche le foglie di un oleandro. A subirne le letali conseguenze sarebbero state la moglie e due figlie del proprietario della piantagione, mentre Chloe sarebbe finita impiccata e poi buttata in un fiume. L'episodio, però, non sembra avere alcun fondamento storico.


Anche in Italia l’oleandro non sembra godere di buona stampa. Durante le epidemie di colera dell’estate 1911, il paesino di Verbicaro, in provincia di Cosenza, fu sede di scontri e rivolte. Il popolo era convinto che l’epidemia fosse dovuta agli “avvelenatori”, che avevano infettato la fontana della cittadina. Tra le voci diffuse all’epoca, il Corriere della Sera del 31 agosto di quell’anno ne riportava una curiosa:


Si racconta che due giorni prima dell’epidemia di colera del 1857, furono visti due gendarmi in atteggiamento sospetto camminare lungo l’acquedotto. Scoppiato il morbo, qualcuno sospettò che quei gendarmi avessero messo per conto del Governo delle polveri nell’acqua; gli abitanti accorsero, alzarono le pietre che ricoprivano il preadamitico acquedotto e trovarono infisso con un chiodo nella parete un fascio di rami d’oleandro, pianta, come si sa, velenosa. La convinzione che il Governo avesse voluto sopprimere tutto quanto il paese si formò sicura, incrollabile. A cinquant’anni di distanza rivive con tutto il suo assurdo, nella sua mostruosità.

Ma dunque, che dire delle storie di soldati, campeggiatori in vacanza e boy-scout distratti, morti avvelenati? Nelle cronache tutti questi casi non compaiono.

L'oleandro è una pianta diffusa anche in Italia, e da noi è chiamata popolarmente anche Nerio o mazza di san Giuseppe. Quest'ultima dicitura fa riferimento a un episodio presente nella letteratura paleocristiana, secondo cui i pretendenti della Vergine Maria erano stati invitati dai guardiani del tempio a deporre sull'altare un bastone. Quello di Giuseppe, fatto di oleandro, fiorì non appena posato, così che l'uomo venne scelto come futuro sposo.


L’oleandro è in effetti una pianta velenosa, in primo luogo a causa di un suo principio attivo, l'oleandrina, un glucoside cardiaco diffuso tanto nel fusto quanto nelle foglie e nei fiori. I casi di avvelenamento, però, in genere sono rari: riguardano di solito bambini piccoli o assunzioni volontarie. Un caso famoso (e reale) di decessi legati all'ingestione di questa pianta è avvenuto a Cecina nel 2012, quando un uomo e una donna furono trovati morti in una pineta; si trattava però di individui già debilitati dal freddo e dal digiuno. A Los Angeles, nel 2001, una donna cercò di assassinare il marito con un decotto di oleandro: la cosa però non riuscì. Questo tipo di veleno è piuttosto popolare anche nella fiction, si pensi ad esempio a film come White Oleander, del 2002, o al libro che lo ispirò.


In generale, però, si può dire che l'oleandro, almeno per gli adulti, non è così velenoso come leggenda vorrebbe. Nel 2005 alcuni ricercatori si sono presi la briga di verificare quanta oleandrina (il principio attivo) potesse finire in un hot dog cucinato come nei nostri racconti. I risultati furono presentati al meeting annuale del North American Congress of Clinical Toxicology. L'abstract è piuttosto eloquente:


Diverse fonti, in letteratura medica e fuori da essa, riportano che un avvelenamento accidentale può avvenire consumando cibo cucinato su rami di Nerium oleander. Sebbene parecchi casi moderni dimostrino la tossicità dell'ingestione di oleandro in foglie o decotto, gli unici casi di tossicità attraverso il meccanismo dello spiedo si sarebbero verificati agli inizi del XIX secolo. Disponiamo però di pochi dettagli clinici e non abbiamo risultati di laboratorio. La mancanza di casi di avvelenamento ben documentati spinge il senso comune a pensare che si tratti di di una leggenda metropolitana. Metodo: Gli hot dog (Hebrew National Beef Franks, ConAgra Foods) sono stati disposti su uno spiedo lungo tutta la loro lunghezza, sia su rami di Nerium oleander appena tagliati sia su rami secchi (4 ciascuno) e cucinati su un barbecue di carbonella. Gli hot dog cotti sono stati quindi congelati fino al momento dell’analisi del contenuto di oleandrina eseguito tramite liquido cromatografico/spettroscopia di massa. Risultati: Gli hot dog sui rami secchi contenevano 14,3±8,8 ppb [parti per miliardo] di oleandrina, mentre quelli cucinati su rami appena tagliati ne contenevano 7,0±2,1 ppb (gruppo di controllo: <1 ppb di oleandrina). L'hot dog più contaminato conteneva meno di 1,5 mg di oleandrina; anche ammettendo la presenza di altri glicosidi cardiaci non misurati, il contenuto di oleandrina è di molti ordini di grandezza inferiore a quanto necessario per causare tossicità in un essere umano che mangiasse l'hot dog. Inoltre, diverse difficoltà meccaniche sia con i rami di oleandro appena tagliati sia con quelli essiccati rendono il loro uso pratico come spiedi improbabile. Conclusione: Gli hot dog cucinati su rami di Nerium oleander contengono una quantità di oleandrina trascurabile. L'avvelenamento da consumo di hot dog e di altri alimenti cucinati su rami di oleandro è probabilmente una leggenda metropolitana.

Eppure la storia continua a girare, anche presentata da enti serissimi come l'ospedale Niguarda di Milano, che sul suo sito presenta una scheda a domande e risposte sull'oleandro:


Bisogna prendere qualche precauzione particolare nel maneggiare questa pianta? Dato che la pianta è tossica, non bisogna bruciarla o usare, per qualsiasi scopo, fiori, foglie, rametti, tronchi, o parte di essi e neppure l’acqua in cui è stato conservato il vegetale reciso. In passato non sono mancati casi in cui sono stati osservati lievi sintomi di intossicazione in seguito ad inalazione del fumo prodotto dalla legna di oleandro bruciata, o a causa di ingestione di spiedini preparati utilizzando come supporto i rametti di oleandro.

La storia antica dei soldati uccisi dall'oleandro, dunque, sembra aver trovato un’eco, in tempi moderni, anche nell’ambiente medico più all’avanguardia.


In evidenza: Oleandri, olio su tela di Vincent van Gogh (1853-1890). Da Wikimedia Commons, pubblico dominio

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