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La Derubata fantasma

articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo


Il fantasma mette in fuga i ladri - La notte della vigilia di Natale, due malviventi penetrano, credendola vuota, nella casa di un nobile torinese. Mentre però sono intenti ad accumulare bottino, sentono aprirsi lentamente una porta e la luce delle loro torce elettriche illumina sulla soglia una bianca figura spettrale. “Un fantasma!” gridano i ladri terrorizzati. Uno scappa e l’altro sviene. Ma sviene anche il fantasma che altri non è se non la vecchia mamma del padrone di casa, svegliata da quegli insoliti rumori nell’appartamento. Quando la signora ritorna in sé, anche il secondo ladro è fuggito, abbandonando il sacco con tutta la refurtiva.

Queste frasi, apparse su La Domenica del Corriere del 9 gennaio 1955, accompagnano in calce un disegno di uno dei massimi illustratori italiani, Giorgio de Gaspari (1927-2012); l’immagine raffigura due ladri, uno in fuga, l’altro che cade a terra, che fronteggiano una vecchina in camicia da notte con le mani alzate. Lo stesso giorno un concorrente della Domenica, Illustrazione del popolo, supplemento del quotidiano serale torinese Gazzetta del Popolo, raccontava la medesima storia, anch’essa accoppiata ad una tavola disegnata questa volta da Vittorio Pisani (1899-1974).


Entrambe traevano ispirazione da una notizia circolata verso la fine del 1954 a Torino e raccontata per esteso su La Stampa del 28 dicembre. Il presunto furto riguardava l’abitazione di un conte, uscito alle 23 con tutta la famiglia per recarsi alla tradizionale messa di Natale. Tre ladri (non due, come riportavano i settimanali illustrati) ne avevano approfittato per aprire la porta con un mazzo di chiavi false e per rovistare in tutto l’appartamento alla ricerca di ori e preziosi. Comparsa sull’uscio la “bianca figura”, uno dei malviventi si era afflosciato contro la parete, “prossimo a mancare per il terrore”, mentre l’ottantacinquenne madre del conte, per par condicio, sveniva anche lei. All’arrivo dei carabinieri, chiamati da un vicino, la donna si era ripresa, manifestando tutta la sua soddisfazione per il furto sventato.


Non c’erano indizi per approfondire il racconto: il luogo del delitto era una generica casa di corso Vittorio Emanuele, il derubato un anonimo “conte” di cui mancavano le generalità e il quotidiano torinese non si occupò più della storia.


Quel che ci interessa come appassionati di folklore moderno, però, sono alcuni piccoli dettagli che ci fanno collocare questo episodio di cronaca nel grande cestone delle leggende contemporanee.


Ci siamo infatti accorti che questa vicenda torinese appartiene a una piccola serie di racconti, assai simili fra loro, che abbiamo chiamato La Derubata fantasma.


Quando cominciarono a circolare? Non lo sappiamo. Siamo riusciti a reperire qualche fonte, ma la sensazione è che questa vicenda sia ancora tutta da ricostruire.


Per prima cosa, vi raccontiamo un piccolo nucleo di notizie provenienti da aree assai diverse dell’Europa orientale, pubblicate e ripresentate a distanza di tempo fra il 1934 e il 1955, poi faremo un balzo all’indietro, all’America di fine Ottocento, per un altro racconto che sembra essere uno dei progenitori della nostra leggenda.


La prima storia della serie è quella di “Anna Sciagal”. La incontriamo dapprima sul Corriere della Sera del 23 ottobre 1934. È ambientata a Riga, capitale della Lettonia.


Riga, 22 ottobre, notte.
Una poco piacevole avventura hanno avuto la notte scorsa, due ladri, uno dei quali ha pagato con la vita la criminosa impresa. La giovane signora, Anna Sciagal, che era rimasta sola in casa, nel pieno della notte sentiva strani rumori provenire dal piano inferiore. Per nulla sbigottita, si metteva in ascolto e in breve comprendeva trattarsi di ladri che volevano approfittare dell’assenza del marito di lei per svaligiare l’abitazione. In mancanza di armi, la signora Sciagal ebbe un’idea bizzarra: si coprì di un grande lenzuolo e si piantò al sommo delle scale, nel buio, in attesa. Poco dopo, ecco apparire i due ladri che procedevano al chiarore di una lampadina a mano. Fu un attimo. La signora-fantasma apparve agli occhi dei ladri esterrefatti e prese ad agitarsi. A quella vista, uno dei ladri si diede alla fuga tra alte grida, mentre il secondo cadeva a terra di colpo. Quando la signora, sbarazzatasi del lenzuolo, si avvicinò a lui, con un pesante candeliere in mano, pronto a colpirlo, si accorse che costui era morto di paura.

“Anna Sciagal” è per noi, al momento, la “madre” del racconto della Derubata fantasma. Il cognome potrebbe corrispondere a un’italianizzazione di quello di area russa Šagal, lo stesso del pittore, che in Occidente diventò Chagall, ma è tutto ciò che sappiamo dire.


La vicenda, pubblicata come fait divers (come si chiamavano allora le notizie di colore), colpì subito l’immaginario. Il giorno dopo la sua pubblicazione divenne oggetto di una lunga, interessante chiosa, purtroppo non firmata, apparsa sempre sul Corriere: “Lo spostamento della paura”.


La notte avrebbe dovuto essere l’amica dei malfattori e la paura pertinenza della signora Sciagal, scriveva il commentatore. Una “normale, diremmo regolamentare spartizione dei compiti” era invece stata sconvolta da “una lieve modificazione, un piccolo spostamento”. I ruoli si erano capovolti.


Questo capovolgimento, però, non era dovuto all’uso di strumenti consueti: la donna non si era affacciata alla finestra gridando, non aveva impugnato una rivoltella, un’accetta, gli alari del focolare, o altro con cui colpire. Il genio della donna si era espresso nella raffinatezza di un lenzuolo con cui “mascherarsi”. Un oggetto non maschile, si direbbe, non aggressivo: un drappeggio e nient’altro.


Frutto della presenza di spirito, scriveva l’ignoto giornalista del giornale milanese, patrimonio soltanto della donna sapiente, giacché, privi di sapienza come erano i ladri, non pensarono, semplicemente, di strappare di dosso il lenzuolo al fantasma. Cosa che, a ben rifletterci, in tutta questa faccenda le bande ladresche non faranno mai. Il loro ruolo, in queste storielle, è quello di essere tanto violenti quanto stupidi.


Poche settimane dopo, questo racconto diventò il primo a ricevere l’onore di una copertina illustrata da parte di un settimanale italiano, La Tribuna Illustrata di Roma. Vent’anni prima del caso torinese, Vittorio Pisani aveva già presentato graficamente la leggenda della Derubata fantasma. La didascalia che l’accompagnava sul numero dell’11 novembre 1934 corrispondeva in sostanza al testo, se non un’aggiunta: la donna sarebbe ricorsa allo stratagemma perché “priva di armi”, dunque come extrema ratio.


Questo racconto subì una strana sorte. Poco meno di due anni dopo la sua prima comparsa lo ritroviamo, identico, su La Stampa, il 30 settembre 1936. Stesso nome, stessa ambientazione, uguale dinamica. Come e perché sia stato riciclato fa parte del problema generale di questa narrazione.


In piena Seconda Guerra Mondiale ecco comparire il caso numero due del nostro breve repertorio. La protagonista questa volta era “Luisa Szabor”, che il Corriere della Sera del 20 gennaio 1943 poneva in una non meglio precisata cittadina ungherese.


Budapest, 20 gennaio.
Rimasta sola in casa per la partenza del marito chiamato a Budapest da urgenti affari, la signora Luisa Szabor, abitante in una cittadina ungherese, dopo aver sprangato per bene la porta, andò a coricarsi. Poteva aver dormito due o tre ore, quando svegliatasi le parve di udire dei rumori provenire dalla sala da pranzo. Dapprima credette di essersi sbagliata; stette un po’ in ascolto ed ecco ripetersi uno strano scalpiccio e un sommesso bisbigliare. Accostato un occhio alla serratura poté osservare quello che avveniva nella contigua sala da pranzo: due malandrini muniti di lanterna cieca erano intenzionati a far man bassa del vasellame e dell’argenteria. Un’idea balenò nella mente della signora: disfatto rapidamente il letto afferrò un lenzuolo e avviluppatasi in esso dalla testa ai piedi, aprì improvvisamente la porta di comunicazione tra la camera da letto e la stanza dove “lavoravano” i ladri. L’apparizione del… fantasma terrorizzò i due che, abbandonata la refurtiva, si diedero alla fuga. Ma se uno fu lesto a riguadagnare la finestra donde era entrato, l’altro, spaventatissimo dalla spettrale visione, fatti pochi passi rimase come inchiodato nel mezzo della stanza. Poi, d’un colpo si accasciò. La polizia, avvertita telefonicamente, lo trovò morto stecchito: la paura l’aveva ucciso.

Il parallelo con “Anna Sciagal” è impressionante. Se proprio si vuol cercare una differenza, è l’entrata finale in scena della polizia, chiamata dalla donna, che pone il suggello della dichiarazione di morte sul ladro (quello ancora più pauroso del primo, saltato giù dalla finestra).


Nel 1948, la nostra vicenda arriva in Italia, prima a Milano e poi a Roma (il caso torinese, quello presentato in apertura, sarà l’ultimo elemento di questo filone nostrano). Così raccontava il Corriere d’Informazione del 12-13 gennaio 1948, in una sua pagina di cronaca cittadina:


Si traveste da fantasma e mette in fuga i ladri - Di una avventura senza dubbio singolare è stata protagonista la signora Elena S., una donna sulla cinquantina, dotata di eccezionale presenza di spirito e di coraggio non comune. Rimasta vedova durante la guerra in seguito al mitragliamento del treno sul quale viaggiava il marito, la signora vive da allora sola, in una villetta della periferia. Per qualche ora del giorno, una domestica l’aiuta nelle faccende di casa, ma la sera, verso l’imbrunire, Elena S. diventa l’unica abitatrice del minuscolo appartamento. Ciò non ha mai costituito per lei motivo di apprensione. Non che non si rendesse conto della possibilità di qualche sgradita sorpresa… ma un simile pensiero non la turbava… come se fosse ben sicura del fatto suo. Non trascurava naturalmente le più elementari precauzioni e, prima di coricarsi, ad esempio, si accertava che porte e finestre fossero ben sprangate. L’altra sera… si ritirò in camera da letto… e non tardò… a prender sonno. Ma, nel cuore della notte, si svegliò sotto l’impressione di rumori provenienti dalla sala da pranzo. Stette in ascolto, e credette di essersi sbagliata. Di lì a poco, però, ecco arrivare uno stropiccio, un parlare sommesso, uno scricchiolio di mobili. Convinta ormai che qualcuno si fosse introdotto in casa, pensò al modo migliore di metterlo in fuga. Armi non ne aveva e, sola com’era, non poteva pensare di affrontare i ladri. Che fare in tal frangente? Accostato un occhio alla serratura, poté osservare quello che avveniva nella contigua sala da pranzo: due malandrini, muniti di lanterna cieca, erano intenti a rovistare nei mobili, facendo man bassa del vasellame e dell’argenteria. In quell’attimo maturò nella mente della signora un’idea bizzarra. Disfatto rapidamente il letto, afferrò un lenzuolo e, avviluppatasi in esso dalla testa ai piedi, aprì con un colpo secco la porta di comunicazione. Agitando le braccia a guisa di fantasma, con incedere lento e solenne, l’apparizione terrorizzò a tal punto i due ladri al punto che dapprima restarono addirittura paralizzati, e poi, abbandonata la refurtiva che già avevano insaccata, se la diedero a gambe fuggendo dalla finestra.

Stavolta i ladri non muoiono, ma restano “paralizzati” di fronte all’apparizione. I racconti letali della fase prebellica scompaiono, ma il rovesciamento del rapporto tra forti-arroganti e debole-scaltra rimane lo stesso.


“Elena S.”, vedova di guerra, anticipa il solo, nostro vero caso con un protagonista maschile. Un uomo che - al contrario delle donne - a giudicare dal testo, si trovava già sul chi vive e che dunque, si potrebbe presumere, aveva predisposto un piano. Di questo caso si occupò brevemente Corriere d’Informazione dell’11-12 dicembre 1950. La vicenda aveva per teatro una via della parte nord-orientale della capitale.


Roma 11 dicembre. Il proprietario di un negozio di apparecchi radio, Mario Franchi, la scorsa notte ha messo in fuga tre rapinatori agitando un lenzuolo. Il signor Franchi, che da qualche mese, cioè da quando il negozio è stato oggetto di un tentativo da parte dei ladri, dorme in una brandina nel retrobottega, la scorsa notte, non appena ha udito un rumore sospetto provenire dalla porta d’ingresso del suo negozio, s’è alzato e, ammantandosi nel lenzuolo, è andato a vedere quel che succedeva. Tre ladri che avevano appena terminato di scassinare la saracinesca del negozio, alla vista del “fantasma” si sono dati alla fuga.

Un commerciante in allerta, non la donna sola in casa. Lo stratagemma comunque funziona, e i ladri superstiziosi vengono sconfitti.


Ancora più distante dal nucleo narrativo della vicenda di Anna Sciagal, Luisa Szabor, Elena S. e della vecchina torinese, troviamo un caso del 1948, situato questa volta a Scutari (Albania). I pochi dettagli a noi noti derivano da una copertina di Illustrazione del Popolo (il n. 36 del 12 settembre 1948). Il disegnatore Mario D’Antona (1911-1977) rappresentò il contadino “Ahmed Barin” che, accortosi dei furti ripetuti compiuti da un ragazzetto nel suo pollaio, invece che rivolgersi alla legge, decise di spaventarlo. Per questo, gli piombò alle spalle “avvolto in un ampio lenzuolo, a guisa di fantasma”. Come reagisse il ladruncolo non si sa, ma non si parla di morti.


E’ un caso un po’ anomalo rispetto agli altri racconti; si direbbe una forma “leggera” di vendetta, con un protagonista che premedita l’azione. Il ladro non entra in casa (al massimo nel pollaio) e, come visto, il fantasma è impersonato da un uomo. Lo consideriamo, comunque, una specie di variante ai margini del filone di cui ci occupiamo.


Trovate, qui di seguito, una piccola tabella comparativa delle varie versioni della Derubata fantasma.

Malgrado la presenza di una storia - o di due, se includiamo “Ahmed Barin” - con protagonisti maschili che premeditano l’azione anti-ladri, il motivo di fondo di questo plot che abbiamo appena sbozzato sembra quello della donna apparentemente inerme che rivela una furbizia e una forza non evidenti agli occhi del mondo.


La vedova di guerra, la moglie col marito lontano per affari, quelle col marito assente per motivi imprecisati, la vecchina ottantacinquenne disarmata lasciata sola in casa, mentre l’intera famiglia è fuori: tutte, usando un lenzuolo o una camicia da notte, uccidono, terrorizzano, paralizzano, fanno scappare in preda agli urli gruppi organizzati di uomini violenti senza attendere il rientro del capofamiglia - “il naturale protettore”, come lo definiva il Corriere della Sera del 24 ottobre 1934. Forse il processo di emancipazione femminile in corso nel mondo a partire dalla Prima Guerra Mondiale incise sulla circolazione della storia. C’è poi, a probabile garanzia del successo di questa traccia, il motivo folklorico del criminale punito tipico di tante leggende, anche contemporanee: ne sono esempi il gatto nel sacchetto, l’uomo che vuole rubare il carburante dal serbatoio di un camper aspirandolo e che scambia il portellino della benzina con quello delle acque nere, e così via.


In apertura dicevamo che, assai prima del nucleo di racconti compresi fra il 1934 e il 1954, ci sono indizi che il motivo narrativo esistesse già.


Già il 14 gennaio del 1898, infatti, un quotidiano dell’Illinois, The Quincy Daily Journal, sotto il titolo Mask against Mask (Maschera contro maschera), raccontava un aneddoto simile a quelli che abbiamo elencato. L’articolo esordiva spiegando che una strana storia era stata riferita da una giovane signora durante una festa, tenutasi una sera di pioggia in una cittadina del Maine. Ad ascoltarla c’era un collaboratore della popolarissima rivista americana per famiglie The Youth’s Companion, che quindi raccolse l’aneddoto. Sebbene non sia detto in maniera esplicita, è probabile che la storia sia stata pubblicata da The Youth’s Companion e che il quotidiano dell’Illinois l’abbia ripresa da lì. Potrebbe quindi essere uscita nel 1897 su quel periodico.


La donna avrebbe esordito dicendo che la sua non era una storia di fantasmi in senso stretto, ma che le somigliava e che, soprattutto, le era capitata di persona.


Alcuni anni fa, in assenza di suo padre e sua madre, stavo trascorrendo una settimana con un’amica, Frances Livermore [Livermore è una cittadina del Maine e anche un cognome tipico di quello Stato, NdA]. La cameriera era tornata a casa per una malattia in famiglia, ed io e la mia amica eravamo rimaste sole, seppure in compagnia di un grosso cane da caccia. Non avevamo alcun timore, perché Tige era un cane da guardia eccellente.
L’ultimo giorno della mia permanenza ci recammo a un picnic, dal quale rientrammo stanche e con i volti tristemente bruciati dal Sole. Vi mettemmo sopra del burro e li coprimmo con con mascherine di lino bianco, con dei buchi che avevamo tagliato per la bocca e per gli occhi. Il nostro aspetto comico ci divertiva tantissimo.
Frances si aspettava che suo padre e sua madre rientrassero quella sera, perciò sedemmo fino a tardi per attenderli. Alla fine però ci arrendemmo e ci ritirammo a letto, dove cademmo ben presto nel sonno con ancora sul viso le maschere.
Durante la notte fummo svegliate da un rumore nelle stanze sotto le scale. “Sono arrivati!”, bisbigliò Frances. “Scenderò giù per vedere se stanno bene”, e dicendo questo si alzò, accese una candela e prese a discendere le scale. Appena fu uscita decisi di seguirla, accesi un’altra candela, la misi in un involucro bianco e mi affrettai dietro di lei.
I rumori venivano dalla sala da pranzo. Andammo da quella parte. Frances aprì la porta pensando di vedere suo padre e sua madre, ed invece ci trovammo davanti due uomini mascherati che si affannavano a mettere l’argenteria in un sacco. I ladri videro come eravamo conciate, gettarono il sacco in fretta e scapparono in cucina uscendo da una finestra aperta.
Non gridammo, ma per un attimo restammo pietrificate dallo stupore e dal terrore. Poi ci guardammo l’un altra chiedendoci se il nostro aspetto non aveva spaventato i ladri. Eravamo in bianco dalla testa ai piedi e con quelle maschere, alla luce delle candele, dovevamo essere apparse come dei veri fantasmi.
A quanto pare Tige era rimasto tranquillo nella stalla, silenzioso, rendendo chiaro che i ladri erano persone che conosceva [...]

Come già visto, di solito le storie della Derubata fantasma identificano con nome e cognome i presunti protagonisti. Questa storia così antica, però, ha addirittura la pretesa - attraverso il collaboratore del Youth’s Companion - di metterci di fronte a una testimonianza orale narrata in prima persona. Gli accenti della storia, invece, sono assai meno tragici rispetto al nucleo narrativo degli anni ‘30-’40. Sono quelli di un aneddoto innocuo sui fantasmi, buono per intrattenere i conoscenti a una festa, ben utilizzabile in un periodico dagli accenti edificanti come il Youth’s Companion. Non ci sono morti o gravi malori dei ladri, e, a farsi un po’ di coraggio reciproco, le donne sono in due. Altro dettaglio che va nella direzione di un racconto fatto a scopi di socializzazione, magari a tavola: l’atto compiuto dalle due giovani è involontario, non contrastano i malviventi “facendo i fantasmi”. Sono i ladri che, vedendo le due vestite di bianco e col viso coperto di lino - proprio come nelle fotografie scattate durante le sedute spiritiche del tempo - si spaventano e tagliano la corda. Fanno tutto da soli.


Naturalmente, se davvero fu narrata in prima persona, questa variante della storia toglieva a chi raccontava la necessità di esibire il cadavere del ladro morto di paura...


Il dettaglio del cane che non abbaia perché forse i ladri gli sono persone note aggiunge un ulteriore tratto di realismo alla narrazione, in cui peraltro l’elemento della solitudine delle vittime-fantasma (il marito lontano, la parente all’ospedale, qui i genitori assenti) contribuisce di nuovo a creare il setting indispensabile perché la nostra storia funzioni al meglio: l’isolamento totale rispetto al mondo, grazie a cui i ladri e la vittima mettono in scena, in maniera perfetta, il rovesciamento dei rispettivi ruoli iniziali.



Ringraziamo per la collaborazione Paolo Fiorino (CISU), la scrittrice Chris Woodyard e il folklorista Simon Young.



Nell’immagine in evidenza: la rappresentazione di un caso tipico della “Derubata fantasma”: la storia di “Anna Sciagal”, da La Tribuna Illustrata dell’11 novembre 1934.












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