Articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo
Tra le numerose leggende della Prima guerra mondiale, ce n’è una che per lungo tempo è rimasta un po’ ai margini, forse a causa della diffusione abbastanza limitata (il fronte dell’Isonzo). Non è menzionata, ad esempio, nella maggiore raccolta italiana di leggende di guerra, lo splendido Spegni la luce che passa Pippo di Cesare Bermani (Odradek, Roma, 1996).
Si tratta della leggenda dei mitraglieri incatenati. Secondo una voce diffusa tra i soldati italiani, infatti, i militari nemici addetti alle mitragliatrici Schwarzlose M7, l’arma di squadra standard delle truppe austro-ungariche, venivano legati alla mitragliatrice perché non potessero più allontanarsene.
Ne è un esempio questo articolo de La Stampa, che il 2 giugno 1917, in seguito a una delle ripetute e pressoché infruttuose battaglie sul Carso, spiegava così le difficoltà del nostro esercito:
Non crediamo che inglesi e francesi abbiano contro di sé difensori più oculati, più tenaci, più votati alla morte di quelli contro i quali dobbiamo lottare. Non andiamo a cercare i mezzi, le pressioni che si esercitano dagli ufficiali austriaci sui loro uomini. Abbiamo trovato in grandissimo numero i mitraglieri legati all'arma, obbligati così a resistere fino all'ultimo metro di nastro. Il fatto è che gli austriaci ancora dopo tre anni di guerra dimostrano una durezza, una caparbietà nella resistenza che rende sempre più splendida la virtù offensiva del nostro soldato.
A colmare la lacuna storiografica è arrivato nel 2017 un delizioso libretto di Mitja Juren e Nicola Persegati, La leggenda dei mitraglieri incatenati (Gaspari Editore, Udine), che analizza la diceria da due punti di vista contrapposti: quello dei recuperanti, i cacciatori di ferrivecchi che nella zona dell’Isonzo raccoglievano, disinnescavano e rivendevano i residuati bellici lasciati sul campo negli anni del secondo dopoguerra; e quello delle voci che correvano tra i soldati durante il conflitto, ricostruite grazie a diari e articoli sui giornali.
La prima parte, scritta da Mitja Juren, segue infatti i pensieri di Jože, uno dei recuperanti che lavoravano lungo l’Isonzo. Si tratta di un racconto di fantasia, ma basato sulle dicerie diffuse tra chi faceva questo particolare (e pericolosissimo) lavoro. Tra di loro, il massimo della fortuna era proprio la scoperta di un nido di mitragliatrici austriache ancora intatto: la vendita di una Schwarzlose permetteva infatti di realizzare un lauto guadagno. Un giorno, Jože sta perlustrando con un metal detector una vecchia trincea, quando scopre proprio l’oggetto del desiderio di tutti i suoi colleghi:
Solo qualche leggenda tramandata da recuperanti in azione sulle giogaie delle montagne gli aveva parlato di simili scoperte. La versione più in voga era quella della caverna nascosta su un picco impervio. L’ingresso principale risultava ostruito, ma osservando con attenzione dal versante opposto, magari con un binocolo, si intravedeva una feritoia da cui spuntava la bocca di una mitragliatrice ancora pronta a entrare in azione.
Nei pressi del Carso si narrava una variante più macabra di quella leggenda. Tra i frequentatori delle osterie e davanti ai focolari si raccontava di una banda reggimentale che, durante un forte bombardamento, aveva trovato rifugio in una caverna. Dovevano accompagnare con le loro note l’avanzata dei reparti, ma si ritrovarono di colpo sotto un bombardamento infernale. Non abituati all’esperienza del fronte speravano che quella tempesta terminasse al più presto. Sfortunatamente lo scoppio di una bomba nelle vicinanze fece crollare l’ingresso imprigionandoli all’interno. Finita la guerra gli abitanti raccontavano che l’eco delle ultime note suonate dalla banda nel buio della grande galleria riecheggiasse ogni sera fino ai paesi vicini. Qualche curioso cercò di individuare questa misteriosa cavità, ma senza esito.
Jože invece ha trovato davvero la mitragliatrice austriaca, senza puntare binocoli verso caverne nascoste e senza ascoltare musiche spettrali. È semisepolta nel terreno, e dunque occorre scavare per riesumarla. L’anziano recuperante continua il suo lavoro a colpi di piccone, e riporta alla luce le ossa di una mano, poi lo scheletro del militare addetto al funzionamento dell’arma. Eppure la Schwarzlose non accenna a muoversi. La ragione sta nel macabro dettaglio che Jože scoprirà di lì a poco:
Allargò lo scavo facendo spuntare una tibia del soldato. La impugnò per spostarla, ma un peso insolito lo fece esitare. Tirò di nuovo facendo affiorare un anello arrugginito di ferro attorno all'osso. Il resto della catena si nascondeva ancora nel terreno. D'istinto la strattonò di colpo. Come un destriero frustato la mitragliatrice si scosse dal terreno scartando verso di lui. [...] Era davanti ai suoi occhi, ma non poteva crederci: il povero mitragliere era stato legato alla sua arma in una specie di patto mortale. Doveva adempiere alla sua missione fino alla fine.
La seconda parte di La leggenda dei mitraglieri incatenati è invece un saggio di storia militare compilato da Nicola Persegati, autore di numerosi libri sugli eventi della Prima guerra mondiale. Persegati cerca di rispondere alla domanda: perché questa diceria si diffuse in modo così pervasivo all’interno del Regio Esercito? Per rispondere, ricostruisce la storia della Schwarzlose e il timore reverenziale per la sua efficienza che albergava tra le truppe italiane.
Inventata a fine Ottocento da Andreas Wilhelm Schwarzlose e perfezionata dall’americano Hiram Stevens Maxim, questa mitragliatrice cominciò ad essere prodotta in Germania a partire dal 1892. L’esercito tedesco e quello austriaco la adottarono su larga scala. Erano usate per la difesa delle trincee, ma avevano anche un ruolo di copertura durante gli assalti alle linee nemiche. In breve si rivelarono micidiali, guadagnandosi il soprannome di “falciatrici di uomini”. Le analoghe armi di reparto usate dal Regio Esercito, le Fiat-Revelli Mod. 1914, non avevano la stessa efficienza.
E così, spiega Persegati
Dopo cinque offensive sanguinose sull’Isonzo, tra i soldati italiani maturò l’esigenza di spiegare la volontà di resistenza ad oltranza dei mitraglieri avversari. Si manifestarono due ipotesi. La prima si rifaceva all’idea di militari specializzati, quasi un’élite, destinata all’impiego di queste armi. È un’immagine che si sviluppa progressivamente e trova spazio pure nella stampa. Nel maggio 1917 durante la decima offensiva dell’Isonzo venne ribadita dai cronisti: “Sono assai numerose le mitragliatrici catturate dai nostri soldati, allettati dal premio che assegnan loro i nostri comandi reggimentali. Ma il compito è sempre arduo, talvolta mortale, poiché queste armi sono affidate dal nemico, quasi sempre, a vecchi ufficiali, tenaci e valorosi combattenti, austriaci nel vero senso della parola che per la loro cronica italofobia resistono meravigliosamente finché preferiscono morire sulla loro arma anzi che cederla agli odiati katzmakers [mangiagatti, NdR]”.
Questa immagine suggestiva - l’idea dell’ufficiale austriaco intriso di odio anti-italico, messo lì per resistere il più possibile e per fanatizzare i sottoposti - permetteva forse agli italiani di non porsi troppe domande sull’efficacia dei propri armamenti e delle tattiche di assalto. Sul piano storico, si tratta di una leggenda: i mitraglieri erano ufficiali, ma anche sottufficiali e ai soldati semplici. Con l’aumento della potenza di fuoco nemica (dopo il primo anno di guerra, le mitragliatrici aumentarono fino a diventare otto per ogni battaglione), cominciò a diffondersi la voce che numerosi soldati fossero stati trovati incatenati alle loro Schwarzlose: soltanto uomini costretti a resistere, senza alcuna possibilità di fuga, potevano giustificare quella carneficina. Finalmente l’ostinazione del nemico trovava una giustificazione.
La prima testimonianza scritta di questa convinzione arrivò con la sesta offensiva dell’Isonzo, nell’agosto del 1916. È legata alla conquista da parte della brigata Benevento del monte Sveta Katerina, il Santa Caterina, oggi in Slovenia: una modesta collinetta che nei diari diventava una “montagna”, forse perché risalirla sotto il fuoco nemico fu terribile. Nei diari ufficiali del 134° Reggimento, uno dei due che facevano parte della Benevento, i mitraglieri incatenati non sono menzionati. Tuttavia, lo sono nel diario di uno dei suoi fanti, Giovanni Varricchio
L’artiglieria italiana che per ben sette ore aveva rivolto le sue bocche da fuoco su quelle posizioni sconvolgendole, a mezzogiorno allungò il tiro, ed allora noi muovemmo all’assalto, con alla testa il Comandante del reggimento [...]. Superata quella salita le compagnie assalitrici catturarono i pochi austriaci superstiti, che, orribile a dirlo, la miglior parte mitraglieri, erano legati alle proprie armi per impedire che avessero abbandonato la linea.
La leggenda potrebbe aver avuto origine dai cinghiaggi che gli addetti alle mitragliatrici utilizzavano durante il trasporto dell’arma; queste cinghie rimanevano allacciate anche durante gli assalti. Però si trattava di semplici strisce di cuoio, non di catene, che i militari potevano sganciare quando volevano. Ciò non bastò, tuttavia, a impedire che gli italiani dessero loro un senso più inquietante…
La diceria dei mitraglieri - prima legati, poi addirittura incatenati - non tardò a comparire anche sui quotidiani. Un esempio ne è il Giornale d'Italia del 3 giugno 1917 (prima pagina, quinta colonna), che parlando delle imprese della Brigata Lupi di Toscana raccontava:
Il comandante della posizione [nemica] aveva ordinato che i due serventi austriaci fossero legati saldamente con piuoli per terra dietro le mitragliatrici. Così era sicuro che non avrebbero abbandonato l'arma. Quei due nemici non avevano potuto aprire il fuoco. I nostri proiettili di artiglieria li avevano travolti oltre il rovescio sfracellandoli insieme a quelle armi a cui erano stati barbaramente legati.
Persegati ha raccolto testimonianze della leggenda provenienti soprattutto dai diari dei soldati italiani (compreso quello celebre di Attilio Frescura, che menziona “quattro mitragliatrici con i serventi austriaci uccisi accanto alle armi, alle quali erano legati”). In quello di Mario Sfondrini, della brigata Novara, si parla di “catenelle in ferro”; erano probabilmente, di nuovo, cinghie per il trasporto, interpretate però in questo modo:
Gli apparecchi lanciafiamme, mentre la linea si riordina poco oltre la strada Castagnevizza-Plenski, saettano e incendiano nelle caverne i residui della resistenza nemica. Rimangono pure carbonizzati i serventi di una mitragliatrice, legati con catenelle di ferro alle armi micidiali perché riuscisse loro impossibile fuggire!
La voce, sviluppatasi tra la fanteria, passò ai reparti dell’artiglieria. Ne sono un esempio le memorie di Pietro Menichini, artigliere, che visitò la zona bombardata di Prepotto (Udine) e vide
A pochi passi, sventrato dai nostri tiri, un osservatorio austriaco con alcuni cannoni ormai muti e con i serventi, cadaveri, riversi su di essi. Ci avvicinammo, e ciò che vedemmo ci riempì di orrore: quei poveri ragazzi erano stati tutti legati ai loro pezzi perché non potessero fuggire. Questo, è la guerra!
Nel complesso, è possibile confermare che quasi tutte le testimonianze arrivarono dal fronte dell’Isonzo. La leggenda, insomma, ebbe portata e diffusione limitata. C’è un’unica eccezione, scoperta ancora una volta da Persegati: quella che riguarda il capitano Antonio Pavan, che, arrivato a Sacile, nella pianura, dopo lo sfondamento di Vittorio Veneto, vide un soldato austriaco morto, in un lago di sangue, con agganciata a una gamba “una catena di ferri” e la sua mitragliatrice. Si tratta di una testimonianza tarda: la maggior parte dei racconti si riferisce invece all'anno 1917, quello in cui la guerra si era fatta più difficile. In ciò, la leggenda dei mitraglieri incatenati serviva a dare un senso a quell’ostinata resistenza nemica, che costava sempre più uomini.
Persegati lo spiega con chiarezza:
Al buio della disperazione e della follia si cercava di reagire, oltre che con i tradizionali valori e riti scaramantici del proprio retaggio familiare e sociale, pure con la elaborazione di mitologie capaci di dare una chiave d'interpretazione convincente al caos bellico. [...] La drammatica esperienza veniva affrontata con l'identificazione totale tra l'avversario che provocava questa morte e la sua arma. [...] L'apparente indifferenza con cui manovravano quelle mitragliatrici fino all'ultimo si spiegava solo con una coercizione assoluta.
Immagine in evidenza: una mitragliatrice austro-ungarica Schwarzlose. (Foto di Rabax63, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons)
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