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La tragica storia dei gassatori dello Zambia




articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo



Le storie delle ondate di attacchi condotti con gas narcotici o paralizzanti da parte di misteriosi aggressori sono un classico delle leggende contemporanee e della psicologia sociale.


Il prototipo di questa tipologia di panico collettivo è rappresentato dal “gassatore folle di Mattoon”, il presunto criminale che di notte, nell’estate del 1944, entrava nelle camere da letto degli abitanti di una cittadina dell’Illinois spruzzando sostanze che provocavano malesseri di ogni genere. Questi panici differiscono dalle Mass Psychogenic Illness (le MPI, di cui abbiamo descritto qui un recente caso francese) perché i sintomi che le persone manifestano nelle MPI di norma sono concentrati nel tempo ed estremamente confinati nello spazio.


Agli inizi del 2020, un colossale, probabile “panico da gassatori” ha fatto la sua comparsa in termini clamorosi nella parte più interna dell’Africa meridionale. Una cosa che distingue questa probabile psicosi (in realtà le autorità zambiane hanno ritenuto di individuare dei possibili “colpevoli” dei gesti, ma noi ci permettiamo di avanzare parecchi dubbi al riguardo) da quella classica di Mattoon sono le sue dimensioni: centinaia di casi, intere parti della nazione coinvolte, migliaia di persone che hanno accusato sintomi, e - soprattutto - le tragiche conseguenza umane del panico.


Con i suoi 18 milioni di abitanti, la Repubblica dello Zambia è un Paese indipendente dalla Gran Bretagna del 1964. Dagli inizi degli anni ‘90, dopo la fine del regime autoritario di Kenneth Kaunda quel Paese ha visto notevoli tassi di crescita della sua economia, ma nel complesso resta una nazione assai povera e con un’aspettativa di vita bassissima.


La capitale, Lusaka, in modo simile ad altri Paesi del sud del mondo, raccoglie una percentuale significativa della popolazione nazionale. La Greater Lusaka oggi probabilmente conta 2,6 milioni di abitanti.


Non ci è chiaro quando sia nata la psicosi del gassatore zambiano, ma di certo a partire dalla metà e poi soprattutto alla fine di gennaio una gran quantità di persone della città mineraria di Chingola, ai confini con la Repubblica Democratica del Congo, aveva inondato di telefonate la polizia locale, con un picco di ottanta casi il giorno 23, per poi scendere sino a 7 il giorno 28: sintomi di soffocamento, lacrimazioni, odori sconosciuti, di solito avverti all’interno delle abitazioni. Almeno trenta persone erano state visitate dai sanitari, ma che erano state rapidamente dimesse. La polizia aveva istituito pattuglie appiedate, e questo, insieme all’uccisione di un povero diavolo a pistolettate da parte dei poliziotti (l’uomo aveva con sé “sostanze chimiche non meglio identificate e un cellulare”) sembra avesse contribuito a calmare gli animi. Un altro sospetto era stato arrestato nella vicina Mutenda, e, dopo un po’ di strattonamenti, aveva confessato il suo crimine.


Ma la calma era solo apparente. Dopo essersi esteso all’area nord-occidentale del Paese, nella prima settimana di febbraio il terrore del gassatore aveva raggiunto la capitale, Lusaka. Il 10 febbraio un paio di guidatori di auto prese a nolo (pratica abituale in Africa) erano stati aggrediti da gruppi di scalmanati che sospettavano i loro occupanti fossero avvelenatori. Si erano diffuse voci secondo le quali nove persone erano morte per i gas venefici. La portavoce della Polizia nazionale aveva lanciato un appello a non cercare colpevoli a tutti i costi, smentiva le dicerie sui morti e annunciava nuove indagini e un maggior numero di pattugliamenti volti a cercare di capire che cosa stava succedendo. Ma era tutto inutile. La notte successiva un uomo fu bruciato vivo vicino a Lusaka e un altro salvato a stento dalle forze dell’ordine. Il primo era stato “visto” direttamente spruzzare gas da una bomboletta attraverso una finestra chiusa. Un quattordicenne fu arrestato perché spruzzava da un contenitore qualcosa in una scuola. Nei giorni immediatamente successivi il totale degli uccisi intorno alla capitale salì a sei. Poi la situazione precipitò.


Si diffusero voci di omicidi rituali con asportazione di parti dei cadaveri, in qualche modo legati ai “gassatori”. Le pattuglie di Polizia inviate ovunque per controllare il territorio furono in più occasioni attaccate dagli abitanti, e alcune stazioni di polizia date alle fiamme. Il 14 febbraio i morti per aggressioni erano saliti a nove, ma almeno le segnalazioni di attacchi col gas erano diminuite. Due altre persone erano state arrestate, perché sembrava avessero iniettato del gas attraverso il tetto di una casa: gli erano state sequestrate sostanze, poi inviate ai laboratori per analisi. Ovunque avvenivano disordini, erano segnalati casi di avvelenamento nelle scuole e si verificavano svenimenti, pestaggi di sospetti (anche di persone con disturbi psichiatrici) e arresti. In un crescendo paranoico, un vescovo di una chiesa evangelica è giunto ad accusare il governo di aver organizzato gruppi di gassatori per scatenare il panico e così rinviare le elezioni politiche previste per il 2021.


I discorsi degli esponenti politici assumevano toni di questo genere:


Quello che mi lascia perplesso è l'origine del gas, il tipo di gas usato, e chi ne sia il fornitore. Questo perché i poveri giovani zambiani non sono in grado di acquistare il tipo di prodotti chimici che si suppone vengano usati, visto che se fossero a buon mercato a questo punto sapremmo quali sono le fonti e i produttori di tali gas. Quel che più conta è che con un tasso di disoccupazione così alto, il cosiddetto gas potrebbe costare assai di più che un normale pasto, uno di quelli che lo zambiano comune non riesce a procurarsi.

Insomma, i responsabili di così numerose azioni non potevano essere dei poveracci o dei delinquenti comuni, o degli spostati.


Vicende come quelle del “panico da vampiri”, che fra il 2017 e il 2018 aveva provocato parecchie vittime identificate come “succhiasangue” nel vicino Malawi (qui un ottimo studio di Sergio Della Sala, in origine pubblicato sul n. 33 del 2018 di Query, la rivista del CICAP), purtroppo non sembrano aver insegnato granché, e, anzi, proprio nelle ultime settimane sembra essersi tragicamente tornata d’attualità.


Gli arresti intanto si moltiplicavano, ma Tuesday Bwalya, uno dei maggiori intellettuali zambiani, invocava non tanto l’arresto degli esecutori, quanto dei presunti “manovratori” (masterminds) alle loro spalle. A quel punto (28 febbraio), le persone uccise dalla folla con l’accusa di essere gassatori erano salite ad almeno 43. A dire il vero, uno dei presunti “capi” della congiura del gas, uno dei “finanziatori”, era stato arrestato il 22 febbraio, ma non si diceva nulla né dei mezzi usati nelle azioni né delle presunte ragioni della “congiura”.


A inizio marzo, però, mentre i casi ufficialmente registrati erano diventati 511 con almeno 1687 persone “vittime” dei gas, esponenti politici come Wynter Kabimba, segretario del Rainbow Party, producevano considerazioni più pacate:


“Quando un’economia si sta disintegrando come sta accadendo alla nostra… quando la gente ha fame ed è arrabbiata, bisogna aspettarsi problemi sociali”…
Kabimba ha anche condannato le uccisioni dei sospetti gassatori da parte di bande, e ha aggiunto che si tratta di comportamenti “assolutamente antipatriottici”.
“Si tratta di un segno concreto di una società arrabbiata e affamata a causa di questa economia. Questa è la reazione che vediamo. Perché soltanto quelli di noi che vengono dalle aree urbane sono sospettati di essere gassatori? Perché in questa economia siamo percepiti come quelli che se la passano bene, che vivono una bella vita”, ha spiegato
Dunque, l’economia ha diviso il Paese in due società: quella deprivata nelle campagne, quella degli impoveriti e dei privati della terra, e quella delle élites, nelle città.

Intervenendo il 6 marzo davanti all’Assemblea nazionale il presidente dello Zambia, Edgar Lungu, era assai più ambiguo. Le voci che correvano, i pestaggi, le uccisioni, i torbidi esplosi ovunque erano esecrabili; moltissimi innocenti erano stati uccisi. Il bilancio era ormai di più di 50 morti. Ma, allo stesso tempo - diceva - i “gassatori non identificati” (unknown gassers) sarebbero stati senz’altro presto “schiacciati e seppelliti” dalle forze di sicurezza. Insomma, per lui il problema non era di ordine socio-psicologico, culturale, e così via. C’era un vero nemico misterioso, le cui motivazioni e modalità d’azione erano tuttora da comprendere.


Eppure, non venivano compiuti furti, violenze sessuali, altri reati. A quella data non si avevano notizie ufficiali sulla natura delle presunte sostanze utilizzate. Al massimo, quello sì, erano stati arrestati sfortunati e improbabili emulatori della storia dei gas misteriosi, con le loro bombolette (non dimentichiamo che la mise en scene delle narrazioni dei panici e la conseguente loro apparente “conferma” ne costituisce parte importante), e con loro una lunga serie di derelitti.


Alla fine di marzo, mentre i casi andavano diminuendo, presso il tribunale di Lusaka erano comparsi dodici uomini accusati di aver compiuto atti terroristici “tramite il rilascio nell’ambiente di sostanze velenose, pericolose, dannose e di tossine chimiche”, Perché, con quali mezzi non era chiaro. La difesa controargomentava che le richieste di rilascio su cauzione, cui si opponevano la pubblica accusa, si basavano su “assunti e su pregiudizi che un tribunale non dovrebbe avere”. I risultati delle analisi di presunte sostanze non erano stati resi pubblici “per motivi di sicurezza”.


L’evidenza per la realtà della “congiura dei gassatori”, insomma è debolissima.


Nell’immagine: disordini nella città zambiana di Mundevu, il 23 febbraio 2020, durante la psicosi dei gassatori.




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