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Le misteriose visite di lincoln agli schiavi




Articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo


Nel 1936, durante il New Deal rooseveltiano, il gigantesco sforzo di politica economica messo in campo per far uscire l’America dalla Grande Depressione, fu intrapreso un progetto di storia orale destinato a raccogliere la memoria degli ex-schiavi afro-americani, ormai assai anziani.


Il progetto era una ricaduta minore del cosiddetto Federal Writers Project (FWP), un organismo pubblico che in sostanza dava lavoro a giornalisti e scrittori rimasti senza un quattrino a causa delle conseguenze del disastro economico di quel periodo.


Negli anni scorsi, nel corso del suo lavoro per il dottorato presso la Rice University di Houston, lo storico William R. Black ha individuato negli archivi del FWP una quarantina di testimonianze che ci interessano molto, e che ha sintetizzato su The Atlantic.


In quei racconti - sia pur condizionati fortemente dagli intenti paternalistici e discriminanti degli studiosi bianchi che li ascoltavano - si narrava con pathos ancora vivo una serie di leggende sorte all’epoca della Guerra Civile americana (1861-65) secondo le quali il presidente Abraham Lincoln si era recato di nascosto nel sud del Paese e, non riconosciuto, aveva visitato fattorie, piantagioni e altri luoghi in cui lavoravano e vivevano gli schiavi.


Il plot narrativo generale era questo: 1) Lincoln giungeva nei panni di un mendicante o di un modesto venditore ambulante; 2) cercava di ottenere qualcosa da mangiare; 3) s’informava sulle condizioni di vita degli schiavi di quel posto; 4) rivelava in qualche modo che presto sarebbero stati liberati; 5) se ne andava rapidamente.


Ecco un tipico esempio della storia:


Poco prima delle elezioni presidenziali del 1860, alla piantagione che si trovava vicino Marlin, nel Texas, a circa venti miglia a sud-est di Waco, arrivò un uomo. Nessuno sapeva chi fosse, ma il proprietario della piantagione lo accolse come un ospite. Il forestiero riservò grandi attenzioni al modo in cui erano trattati gli schiavi che lavoravano alla piantagione, di come avessero per razione settimanale quattro libbre di carne e un pugno di farina, come fossero frustati e a volte venduti, così che le famiglie venivano divise. Poi il forestiero prese congedo e riprese la sua strada, ma poco tempo dopo scrisse una lettera al proprietario della piantagione in cui lo informava che presto avrebbe dovuto liberare i suoi schiavi, che “tutti stavano per avere la libertà, che il Nord stava per arrivare”. Il forestiero scriveva anche al proprietario di andare nella stanza in cui dormiva, perché aveva inciso il suo nome nella testata del letto. Quando lo schiavista andò a controllare vide il nome: “A. Lincoln”.

Le questioni che stanno dietro queste storie, scrive Black, sono complicate. Gli storici delle mentalità si chiedono da tempo se l’emancipazione degli schiavi sia stato un processo largamente deciso dall’alto, dal Nord, oppure se gli afro-americani vi abbiano contribuito “dal basso” più di quanto non si pensi.


Beh, l’immaginazione che sosteneva la storia delle visite segrete di Lincoln per Black indicherebbe che questi processi ebbero molti aspetti contraddittori. Ad esempio, argomenta lo storico, in alcuni di quei racconti Lincoln assume i tratti di un personaggio del folklore afro-americano ottocentesco, Brer Rabbit (in Italia noto come “Fratel Coniglietto”); una figura che ha i tratti prevalenti di quello che i folkloristi chiamano trickster, ossia quelli del gioco, della furbizia e del raggiro (qualità di cui è dotato e che gli permettono sempre di cavarsela in situazioni difficili o addirittura estreme).


In una versione, per esempio, Lincoln, travestito da mendicante, ottiene un bicchierone di latte da eleganti signore bianche di una piantagione e, dopo averlo bevuto, imitando la cadenza dei neri, chiede che cosa pensassero di… Abraham Lincoln, il capo dei nordisti. Come prevedibile, il finto mendicante riceve risposte sprezzanti. Dopo essersene andato senza aggiungere altro, Lincoln scriverà una lettera alle sue ospiti rivelando la propria identità e prendendole in giro. L’ottenimento del cibo in maniera semi-truffaldina per Black è uno dei punti cardine delle azioni di Brer Rabbit, e anche lo “scroccare” il pranzo da parte del Lincoln travestito si riscontra sovente nelle nostre leggende.


Questa aspetto della “furbizia” e del “trucco” è dunque trasferito dal folklore afro-americano all’immagine liberatrice del presidente bianco; un eroe che, però, somiglia almeno un po’ al Brer Rabbit di cui i neri si tramandano i racconti (perché furbo con ricchi, padroni e proprietari terrieri, e quindi in fondo in fondo un presidente che del tutto bianco... non è). Cosa che non guastava, per l’autostima degli oppressi.


La liberazione non era più, allora, soltanto una questione di ideali politici e filosofici dei bianchi: era, anche e non ultimo, una questione di cibo, nel senso letterale del termine. E il Lincoln-Brer Rabbit agiva “come i neri”, per averlo: usando l’astuzia, dissimulando.


Bisogna anche tener presente che in queste leggende (notiamolo ancora, raccontate dagli stessi afroamericani), Lincoln di solito non va di nascosto nelle piantagioni di proprietà dei ricchi sudisti perché vuole annunciare la liberazione degli oppressi. In parecchie narrazioni ne annuncia il prossimo rilascio degli perché offeso in qualche modo dal proprietario, magari perché non accolto da un pari sociale in modo degno alla sua tavola, come ospite gradito e di rango. Alcuni correttivi quali l’assimilazione del comportamento di Lincoln a quello del Brer Rabbit di cui i neri si raccontavano le storie, erano perciò avvertiti come opportuni e desiderabili, per renderlo un po’ più “vicino” agli autori delle testimonianze.


Non a caso, in alcuni racconti di “visite”, Lincoln si unisce ai meeting di preghiera notturni (gran parte degli afroamericani già allora apparteneva a chiese battiste), ne condivide la spiritualità e vi partecipa attivamente. La dimensione religiosa, come sempre, occupa un posto rilevante nella storia sociale e culturale degli Stati Uniti. Inevitabilmente, la cosa diventa ancora più vistosa quando si tratta dei miti fondativi della nazione americana.


Quando gli ultimi ex-schiavi raccontavano le loro leggende ai ricercatori del Federal Writers Project, nota Black, il presidente Lincoln era ormai diventato parte centrale di una narrazione bianca della Guerra Civile. I neri erano oggetto e non soggetto della liberazione. Addirittura, come nel capolavoro cinematografico di David Griffith, Nascita di una nazione (1915), il popolarissimo presidente diventava un nemico dei democratici più radicali, uno che - in fondo - capiva e comprendeva la “prudenza” dei sudisti per le innovazioni dell’assetto sociale ed economico.


Il punto fondante della leggenda, conclude Black, è questo:


Questo [cioè la visione del Lincoln “campione dei bianchi”, NdA ] non è il modo in cui i sopravvissuti alla schiavitù intendevano il loro legame con Lincoln. Non era distante e al di sopra di loro. Lavorava mano nella mano con i neri. Ascoltava i racconti degli schiavi. Si prendeva gioco degli schiavisti e spingeva i neri alla lotta. Come ricordò Charlie Davenport [uno degli ex-schiavi, NdA], Lincoln scese nel Mississippi “proclamando e predicando che noi eravamo i suoi fratelli neri”.
Forse non erano parenti di sangue - forse si trattava solo di una parentela alla lontana. Ma erano pur sempre legati. In un tempo in cui parecchi americani rimodellevano Lincoln quale simbolo della supremazia bianca e cancellavano del tutto i neri dalla storia della Guerra Civile, i sopravvissuti della schiavitù dicevano, grazie ai loro racconti sul Lincoln “sceso nel Sud”, che non potevano essere cancellati. Che non sarebbero stati cancellati. Erano lì da sempre.

Nell'immagine in evidenza: ex-schiavi afroamericani mentre il 19 giugno del 1900 festeggiano il 35° anniversario dell'emancipazione.

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