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Sifilide e cannibalismo: una leggenda storica

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    Redazione
  • 11 ore fa
  • Tempo di lettura: 8 min




Le malattie nuove sono da sempre fonti di voci, dicerie, accuse, teorie più o meno fantasiose sulla loro origine. Se questo è vero nel mondo moderno e globalizzato, lo era ancor più nei secoli passati, quando l’eziologia di un’epidemia era un mistero impossibile da sciogliere. Oggi parliamo della sifilide e delle voci che generò, quando nel Quindicesimo secolo si affacciò sulla scena europea.


Storia di un’epidemia


Importata dalle Americhe, la sifilide arrivò in Europa alla fine del XV secolo. In Italia si diffuse anche grazie all’esercito di Carlo VIII di Francia, che calò in Italia a partire dal 1494 con il suo seguito di vivandiere, mercanti e prostitute dando origine al periodo di conflitti passati alla storia come “guerre d’Italia”. A Napoli, nel 1495, i soldati francesi vennero colpiti dal “morbo” che in quei primi tempi, anche a causa dell’assenza di difese immunitarie per la nuova malattia, assunse rapidamente carattere epidemico. La smobilitazione dell’esercito, seguita poco dopo, contribuì ulteriormente a diffondere la sifilide nel resto dell’Italia e in tutta l’Europa. 


L’epidemia generò una letteratura medica immensa. Si trattava di una malattia enigmatica, comparsa all’improvviso, che per sua natura poteva presentarsi con sintomi diversi. Il dibattito si concentrò sulla questione della sua “novità”: mentre alcuni sostenevano che si trattasse di qualcosa di mai visto prima, altri teorizzavano che fosse la nuova forma di qualche malattia già nota, come la lebbra o l’elefantiasi. Del dibattito, però, fecero da subito parte anche voci e dicerie, riportate e analizzate con la massima serietà dai contemporanei. 


Due interessanti panoramiche del panico conseguente al “morbo” e delle leggende connesse si trova in Cannibalism and Contagion: Framing Syphilis in Counter-Reformation Italy, di William Eamon (Early Science and Medicine, 1998) e nella tesi di dottorato Per una storia del mal francese nel Rinascimento italiano. Tra letteratura e medicina (1494-1629), di Erica Ciccarella (2019). Segnaliamo anche lo studio La sifilide a Napoli nel tardo Quattrocento, di Gianluca Falcucci (Laboratorio dell’ISPF, XVII, 2020).


Alla ricerca del capro espiatorio


Proprio per la sua prima comparsa tra i soldati francesi, in Italia alla sifilide fu dato il nomignolo di “mal francese” (il termine “sifilide” comparirà solo nel 1530 nel poemetto di Girolamo Fracastoro Syphilis sive de morbo gallico). In Francia fu detto “mal napoletano” o “male italiano”, mentre in Inghilterra si dava la colpa dell’epidemia ai francesi, in Polonia ai tedeschi, in Russia ai polacchi. Anche i mori, che erano stati definitivamente scacciati dagli ultimi domini musulmani del sud della Spagna nel 1492, diventarono oggetto di accuse analoghe. La sifilide, insomma, era vista come il “morbo degli altri”, qualcosa che arrivava dall’esterno. 


Spiegazioni di questo tipo sono un classico delle epidemie: in genere si finisce per trovare un capro espiatorio in altre popolazioni o in gruppi marginalizzati (ad esempio, ebrei e lebbrosi per la peste); in alternativa, si identifica l’origine del morbo in un decadimento dei costumi o in comportamenti “divergenti” rispetto alle norme comunemente accettate, spesso in relazione alla vita sessuale o ai comportamenti alimentari. 


Questo accadde anche con la sifilide. Se è pur vero che alcuni medici diedero la colpa dello scoppio dell’epidemia a una congiunzione astrale di Giove e Saturno in Scorpione che si era verificata nel 1484 (quindi ben undici anni prima rispetto all’assedio napoletano), altri ricorsero a quelle che oggi potrebbero essere legittimamente definite teorie della cospirazione. Alcuni riportarono voci secondo cui gli spagnoli assediati a Napoli avevano mescolato sangue di lebbroso con il vino, o sostennero che i napoletani avevano avvelenato i pozzi ai tempi dell’invasione francese. Altri ancora, come il chirurgo padovano Giovanni Mainardi (1462-1536), ipotizzarono che la malattia fosse il risultato dell’accoppiamento tra un lebbroso e una cortigiana, o tra uomini e scimmie. Questo atteggiamento contribuiva a discolpare i medici, incapaci di trovare mezzi per contrastare quel nuovo pericolo, al tempo stesso riaffermando le norme sociali di comportamento. 


Il primo ad avanzare la teoria corretta - cioè che la sifilide era giunta dalle Americhe - fu invece Gonzalo Fernandez de Oviedo y Valdes (1478-1557), supervisore alle miniere spagnole, che aveva passato dieci anni nel Nuovo Mondo. La teoria fu poi sostenuta anche da Bartolomé de las Casas e Ruy Diaz de Isla, e cominciò a prendere piede a partire dagli anni Dieci del Cinquecento. 


Ecco - senza pretesa di esaustività - come quattro autori dell’epoca riferirono le voci più disparate e le leggende intorno all’origine della malattia.


Falloppio: avvelenamento deliberato


Inizialmente, l’attenzione dei medici si rivolse alla ricerca di cure e palliativi. Il dibattito sulle origini del “mal francese” fiorì soltanto in un secondo tempo, quando il morbo era ormai diventato “meno crudele”. Particolarmente interessanti per noi sono gli scritti del grande anatomista modenese Gabriele Falloppio (1523-1562), autore del trattato De morbo Gallico liber absolutissimus, uscito postumo nel 1563. 


Falloppio aveva buone ragioni per dedicarsi allo studio della sifilide: suo padre e suo zio erano morti entrambi per quella malattia, lasciandolo in condizioni economiche precarie. Per proteggere gli uomini dal contagio, Falloppio si era così inventato un “dispositivo medico”: un sacchettino di lino intriso di una soluzione di vino Malvasia, di polvere di legno di aloe e di guaiaco; dopo averli lasciati asciugare, occorreva applicarli sul glande prima dei rapporti sessuali. 


Falloppio collocava giustamente l’origine del contagio nelle Americhe, da cui gli spagnoli erano tornati “più carichi di malattie che di oro” al punto che, per quanto riguarda la diffusione nell’assedio del 1495, incolpava i reparti spagnoli di un’azione deliberata: i soldati infetti, nottetempo, avrebbero avvelenato i pozzi, facendo così ammalare francesi e napoletani che vi avevano attinto.


Cesalpino: la lebbra nel vino 


Andrea Cesalpino (1524-1603), medico aretino, fu autore del manuale di medicina clinica Praxis universae artis medicae, pubblicato nel 1602. Il quarto libro del manuale è dedicato proprio alla sifilide, che secondo Cesalpino era davvero una malattia nuova, sconosciuta alla sapienza degli antichi. Tuttavia, al momento di rintracciare l’origine, anche Cesalpino dava voce alle dicerie che circolavano da decenni: secondo quanto gli aveva riferito un suo concittadino che in gioventù era stato un soldato dell’esercito spagnolo, il primo focolaio era scoppiato nella città di Somma Vesuviana, dove si commerciava un vino corposo denominato “vino greco”. 


A suo dire gli spagnoli assediati, prima di abbandonare la città di nascosto si erano recati all’ospedale di San Lazzaro, dove erano ricoverati parecchi ammalati di quel nuovo morbo; ne avevano estratto il sangue infetto, e lo avevano mescolato al vino. I francesi avevano poi consumato il vino, manifestando subito i sintomi dell’elefantiasi, malattia dalla quale avrebbe dunque per Cesalpino avuto origine la sifilide.


Sigismondo de’ Conti: colpa degli ebrei


Prima di Falloppio e di Cesalpino, la questione era già stata affrontata dall’umanista e storico Sigismondo de’ Conti da Foligno (1432-1512); per spiegare l’origine della malattia, era ricorso invece alla lunga tradizione antisemita che vedeva gli ebrei, fra le mille idee folli, come apportatori di malattie. 


Mentre i francesi si trovavano a Napoli, una malattia terribile scoppiò in Italia […] e questa malattia, sebbene fosse detta morbo gallico dai francesi, non derivò da loro, ma dai marrani che erano stati cacciati dalla Spagna e che Ferdinando aveva accolto a Napoli. Infatti, gli ebrei per quanto si astengano dalla carne di porco, sono soggetti alla lebbra più di tutti gli altri popoli, ed è questa la causa per cui, secondo l’autorevolissimo Cornelio Tacito, furono cacciati dall’Egitto. E ancor meglio la Sacra Scrittura, a cui non si può non prestar fede, precisa che la lebbra era stata un indizio rivelatore di un’ancor più turpe incontinenza: infatti cominciava a manifestarsi nei genitali (citata da Anna Foa in “Il nuovo e il vecchio: l’insorgere della sifilide [1494-1530]”, Quaderni storici, n. s., vol. 19, n. 55. aprile 1984, pp. 11-34).

Fioravanti: il cannibalismo che corrompe


Gli scritti più interessanti riguardo all'origine della sifilide sono però forse quelli di Leonardo Fioravanti (1517-1588), che nei suoi Capricci medicinali - un manuale pubblicato nel 1561 - dava la colpa del morbo al cannibalismo: durante l’assedio di Napoli nel 1494 gli eserciti spagnolo e francese avrebbero inconsapevolmente mangiato carne umana, fonte di “corruzione” per il corpo. 


Fioravanti era un chirurgo che aveva vissuto a lungo da medico itinerante; riponeva molta fiducia nella medicina empirica, quella imparata da pastori e “donnicciole”, che per lui superava di gran lunga i metodi decadenti dei “medici moderni”. Nei suoi Capricci medicinali - quasi un best seller, con edizioni italiane e traduzioni in tedesco e francese - criticava l'establishment scientifico del tempo, puntando tutto sul sapere tradizionale e sulle cure naturali.


In Sicilia si era fatto un nome come specialista del mal francese, curando un gentiluomo palermitano con un rimedio a base di purganti e di guaiaco e ottenendo quindi un posto all’Ospedale degli Incurabili. Trasferitosi poi a Roma - dove si era scontrato con le gelosie dei medici del posto - e poi a Venezia, aveva iniziato a vendere "una polvera perfeta et miracolosa per il mal franzoso”. Il suo scontro con la “medicina convenzionale” toccò un picco nel 1574, quando fu imprigionato a Milano per cattive pratiche mediche. In quel frangente, arrivò a lanciare una sfida ai suoi colleghi milanesi, esortandoli a prendere in carico venticinque sifilitici e a curarli più in fretta di quanto lui avrebbe fatto con altrettanti suoi pazienti. 


Per Fioravanti, la malattia era una corruzione del corpo dovuta a una “condotta innaturale”; le sue cure, a base di emetici e purganti, miravano perciò a espellere questa corruzione. Il medico apparteneva dunque alla schiera di coloro che vedevano la sifilide come un male sempre esistito. Perché, dunque, la malattia si presentava così virulenta da alcuni decenni a quella parte? Perché i soldati avevano mangiato, senza saperlo, carne umana:


Et per tanto vi voglio chiarire io come fu la cosa quando questo morbo corrotto augumentò così nel regno di Napoli. La cosa è questa, che essendo una gran guerra tra Spagnuoli, et Francesi, nel detto regno, qual fu longhissima oltra modo, et per la longhezza della guerra, cominciaron a mancar le vettovaglie, et massime le carni: di modo che quelli vivandieri che andavano appresso il campo, così dell'una, come dell'altra parte, per cavare danari, cominciorno secretamente a tuorre la carne di quei corpi morti, et con essa fare certe vivande, come potaggi, pastelli, arosti, et simil materie, lequali erano buone oltra modo da mangiare, et così andorno frequentando un tempo, con tanta secretezza, che mai non si puote scoprire; di modo tale, che gli esserciti dall'una, et dall'altra parte, havendo tanto tempo mangiato carne humana, si cominciorno a corromper di tal sorte, che non vi restò pure un huomo, che non fusse tutto pieno di brogge, et di doglie, et la maggior parte restorno tutti pelati: et vedendo li poveri Francesi, che così il campo suo era corrotto da tal'infermità conminciorno a dire infra di loro, che li Napolitani gli havevano fatto venire tal'infermità, come in vero erano stati loro: ma però non sapevano come, ne mai l'averiano saputo imaginare, che per causa di una tanta gran poltronaria li fusse successo tanto male.

Per corroborare le sue ipotesi, Fioravanti forniva una testimonianza di prima mano, raccolta probabilmente quando era giunto a Napoli nel 1549. Fu in tale ambiente che aveva scoperto che una malattia simile era già comparsa durante una guerra precedente, quella del 1456:


[…] una volta parlando con un certo Pasquale Gibilotto di Napoli, quale era huomo di età di novanta otto anni, secondo che lui diceva, & io lo credo; perche in Napoli era tenuto il più vecchio di tutti gli altri; & desiderando io di sapere delle cose de tempi passati molte volte ragionava con questo tale, il quale mi raccontava di molte belle cose da seguire, & massime delle guerre tante volte fatte nel regno di Napoli, & il buon vecchio fra l’altre cose mi disse, che nel tempo, che fece guerra quel Giovanni figliuolo di Rinato duca d’Angiò in contra il Re Alfonso di Napoli; circa l’anno 1456, haveva inteso infinite volte dire a suo padre, il qual fu vivandier nell’esercito del Re Alfonso, che per la longhezza della guerra l’esercito era venuto in estrema penuria di vettovaglie […] che gli furono molti vivandieri dell’una & dell’altra parte, i quali secretamente la notte pigliavano la carne de gli huomini morti. & di quella ne facevano più sorti di vivande.

Colpito dalla notizia, Fioravanti aveva cercato di confermare l’ipotesi con un esperimento: aveva dunque preso un maiale e un cane e li aveva nutriti rispettivamente con carne suina e canina per alcuni giorni, fino a quando


la porchetta in pochi giorni diventò tutta spelata & piena di brogge […] dove che il povero cane diventò tutto pieno di brogge, & spelato & pieno di dolori, che si lamentava, come una persona umana.

Dunque, la sifilide non era altro che il prodotto della corruzione del corpo che scaturiva naturalmente dalla violazione del tabù dell’antropofagia: una tremenda corruzione morale che aveva devastanti conseguenze anche sul fisico dell’uomo. E che le dicerie degli anziani napoletani, che la sapevano ben più lunga di dottori e “sapienti”, non potevano che corroborare.


Immagine in evidenza, da Pixabay, foto di derneumann


 
 
 

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