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Sperma di maiale nel burro di cacao?


articolo di Sofia Lincos


Può succedere in qualsiasi momento. Voi siete lì, che vi spalmate il burro di cacao sulle labbra screpolate, quando arriva lei - la vostra amica sempre aggiornatissima sulle pagine web informate che iniziano con Attenzione! e terminano con profluvi di punti esclamativi. Vi guarda con aria disgustata ed esclama: "ma non ti metterai mica quella roba? Non sai che contiene sperma di maiale?"


Da una rapida ricerca su internet emerge una preoccupazione diffusa sull'ingrediente segreto del burro di cacao, considerato responsabile di quell'aspetto biancastro e della consistenza pastosa degli stick per labbra. Su Yahoo answers l'identità del sospetto varia dallo sperma di maiale a quello di cammello (ma c'è chi punta anche sul cinghiale, sul toro o sul rinoceronte).


Tutto nasce da un ingrediente dal nome ambiguo, che si ritrova in effetti in molti prodotti per la cura delle labbra: il Butyrospermum parkii. Si tratta, però, di un grosso equivoco: Butyrospermum significa infatti "seme di burro", e sta ad indicare l'albero di karitè, pianta che cresce nell'Africa subsahariana e dai cui semi essiccati si ricava un grasso utilizzatissimo e apprezzato nell'industria cosmetica.


Per dirla tutta, il termine botanico corretto sarebbe Vitellaria paradoxa, ma Buthyrospermum parkii è un sinonimo accettato per identificare l'albero in questione, e Buthyrospermum parkii butter è anche la denominazione utilizzata dall'INCI (International nomenclature of cosmetic ingredients, la lista degli ingredienti cosmetici adottata da USA, Unione Europea e altri Paesi che vi aderiscono) per il burro di karité.


Quel parki, invece, che qualcuno sembra aver collegato al maiale (forse per l'assonanza con l'inglese pork?), è invece un omaggio a un grande esploratore del XVIII secolo, lo scozzese Mungo Park (1771-1802). Fu lui infatti a far conoscere in Europa gli alberi di karitè, scoprendoli nel corso dei suoi viaggi in Africa occidentale e poi raccogliendone alcuni esemplari per i Kew Gardens di Londra.

L'esploratore scozzese Mungo Park.

Mungo Park ci ha lasciato descrizioni etnografiche che mettono in luce l'importanza di questa pianta per le popolazioni africane: racconta, ad esempio, che quando la gente delle regioni da lui esplorate disboscava una zona per andarci a vivere, tagliava tutti gli alberi presenti tranne quelli di karitè. Dai semi ricavava un cibo che, secondo le sue parole


oltre al vantaggio di conservarsi un anno senza sale, è più bianco, più consistente e al mio palato di aroma assai più ricco rispetto al miglior burro mai assaggiato grazie al latte di mucca.

Certo, magari non avrebbe gradito che si paragonasse una prelibatezza simile allo sperma di maiale.


La leggenda dell’ingrediente segreto - e, va da sé, disgustoso - si ritrova anche in campo alimentare, come dimostrano la leggenda del formaggio fatto coi manici di ombrelli grattugiati o quella della Red Bull a base di sperma di toro, ma anche in cosmetici e prodotti per la cura del corpo. Un esempio è la storia, diffusa anche in Italia, del mascara che conterrebbe… escrementi di pipistrello! Anche qui la colpa è di un ingrediente dal nome ambiguo, la guanina.


Silvia Vertuani, coordinatrice del Master in Scienza e Tecnologia Cosmetiche all'Università di Ferrara spiega così l’origine della diceria parlandone con la divulgatrice Monica Marelli:


Inizia tutto nel 2010, quando il conduttore della trasmissione televisiva americana Billy The Examinator dichiara questa sciocchezza. Probabilmente ha letto che negli ingredienti c'è la guanina, un ingrediente bianco cristallino che serve per dare lucentezza. È vero che il termine deriva dallo spagnolo “guano” ma per uso cosmetico lo si può ottenere dalla lavorazione delle iridescenti scaglie di pesce e non dagli “scarti” dei pipistrelli.

Se il nome “guanina” vi suona familiare, magari è perché lo avete sentito in qualche lezione di biologia: è una delle quattro basi azotate che compongono il nostro DNA. Affermare che il mascara contiene guano di pipistrello è vero tanto quanto affermare che lo contiene il nostro patrimonio genetico.


Nel suo articolo sulle bufale della bellezza Monica Marelli, offre anche qualche riflessione sulle cause per le quali queste storie si diffondono:


Chi si diverte a creare le leggende metropolitane? Ecco cosa mi ha spiegato il dottor Jacopo Casiraghi, psicologo clinico a Milano: “L'autore di una leggenda metropolitana è mosso da diverse motivazioni, fra cui screditare un prodotto per fede ideologica, o per scherzo; ma poiché colpisce l'immaginario popolare si sviluppa in una vera e propria horror story. Infine nelle versioni più appassionanti la leggenda metropolitana è prodotto dall'antico desiderio dell'uomo di raccontare storie per spiegare misteri, suscitare paura o incredulità. E oggi queste storie crescono e acquisiscono verosimiglianza attraverso il web, i forum, Fb e le mail, che fanno da cassa di risonanza, diventando motori di grosse bufale”.

Esiste probabilmente anche un’altra ragione psicologica che porta alla diffusione di questi racconti: la leggenda dell’ingrediente segreto fa leva sul timore di usare (o di mangiare) prodotti di cui non conosciamo bene gli ingredienti, né la dannosità. Se questo è vero in campo alimentare, lo è altrettanto per gli articoli per l’igiene, che riportano sulle etichette lunghi elenchi di sostanze chimiche difficili da decifrare per la proverbiale casalinga di Voghera.


Sapere che un certo prodotto di una marca specifica contiene l’orribile segreto può allora avere un effetto tranquillizzante, perché assolve psicologicamente tutti gli altri. Se sappiamo che un certo brand di burro di cacao contiene sperma di maiale, possiamo andare sul sicuro e acquistare le altre marche senza preoccupazioni, considerandole “sicure”. E magari, perché no, avvisare anche tutte le persone care, che a loro volta potranno fare lo stesso…


Sullo stesso principio si diffuse negli anni ‘70 il cosiddetto volantino di Villejuif, che conteneva un lungo elenco di coloranti alimentari considerati pericolosi o cancerogeni. La lista consigliava di evitare certee sostanze e aveva quindi l’effetto tranquillizzante di dichiarare implicitamente “sicure” tutte le altre. Come fa notare Paolo Toselli nel suo Storie di ordinaria falsità (BUR, Milano, 2004), la lista si diffuse subito dopo la pubblicazione in Francia dei codici identificativi CEE per gli additivi alimentari, rappresentati da una successione di E100, E101, E103… che al lettore dovevano sembrare tutto meno che chiari. Non per nulla la sostanza additata come più pericolosa e da evitare assolutamente altri non era se non l’E330, per gli amici il buon vecchio acido citrico - comunemente presente in arance e limoni.


E proprio perché queste leggende fanno leva sull’ignoranza circa la sostanze presenti nei prodotti che mangiamo e che ci spalmiamo sul corpo, concludiamo consigliando due blog che si occupano proprio di scienza in cucina e di cosmesi: quelli di Dario Bressanini e quello di Beatrice Mautino.


Con un po’ di cultura chimica al nostro fianco, cadere nell’inganno del Butyrospermum parkii sarà un po’ più difficile.

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