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Una pandemia di false citazioni


Articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo


La sensazione di smarrimento di fronte all’evento globale che stiamo vivendo ha fatto sì, fra le altre cose, che in tanti andassero a cercare citazioni, racconti, storie dal passato. In questo modo, si cerca di mettere in prospettiva quello che sta accadendo, grazie al recupero o alla costruzione ex novo di un’intera letteratura di genere sapienziale, che fornisca una “saggezza” utile allo scopo: adattarsi e inventare metodi per affrontare la crisi.


Così, negli ultimi mesi sono fioriti gli articoli sulla storia sociale delle epidemie, con peste e spagnola a farla da padrona - un po’ meno il colera. Abbiamo superato ben di peggio, si dice tra le righe; supereremo anche questa. Rilanciatissime e commentate in ogni modo le fotografie della pandemia di spagnola del 1918-20 con le persone munite per la prima volta di mascherine (ma tra queste anche immagini errate, come quella delle due donne con mascherina che risale invece al 1913). In un caso, c’è stata persino un’intera famiglia ripresa in atteggiamenti borghesi con tanto di gatto mascherinato.


Il filone delle false citazioni


Ma il genere che forse ha prodotto i risultati migliori rimane, come dicevamo in apertura, quello delle false citazioni o degli adattamenti più o meno infedeli o persino del tutto illegittimi.


Gettonatissimo il falso testamento spirituale del primo medico che in Cina aveva scoperto l’epidemia, ma anche una falsa citazione di Manzoni sui milanesi in fuga durante la peste del 1630, le parole di papa Francesco (in realtà, una poesia di una giovane), la lirica “Guarire” (E la gente rimase a casa...) attribuita a una scrittrice irlandese dell’Ottocento, ma in realtà pensata da un’americana appena pochi mesi fa, la citazione “siamo foglie dello stesso ramo” stampigliata sui pacchi di mascherine donate alla Protezione Civile italiana dalle autorità cinesi e falsamente attribuita a Seneca, le abusatissime citazioni di Einstein sulla crisi e di Gandhi sulla necessità di danzare in mezzo alla pioggia, che ha varie versioni e varie attribuzioni (ad esempio, al pastore anglicano Vivian H. H. Greene). Interessante anche un falso deliberato, ossia la poesia greca di un presunto Eracleonte da Gela, letta anche dal governatore del Veneto Zaia duranta una conferenza stampa (ma frutto invece di un perito informatico che voleva verificare se era davvero "così facile diffondere un falso").


A partire dal 22 marzo, invece, ha preso a circolare un lungo messaggio attribuito a Bill Gates che incoraggia le persone a riflettere in senso positivo sulla propria vita durante il lockdown. Lo scritto è stato condiviso da celebrità del calibro di Naomi Campbell, ma è risultato assolutamente apocrifo. Una vera e propria invenzione, invece, un brano “profetico” che sarebbe stato tratto dal libro Le lettere di Berlicche, pubblicato nel 1942 dall’autore de Le cronache di Narnia, Clive Staple Lewis. Il brano fa riferimento a un demonio che, in sostanza, avrebbe portato all’inferno tanta gente con… la paura delle epidemie: la vera strada per la perdizione, insomma, sarebbe la paura per ciò che non è un vero pericolo. Simile, in sostanza, quanto attribuito al comandante in capo dell’aeronautica nazista, Hermann Göring ("L'unica cosa che si deve fare per rendere schiave le persone è impaurirle. Se riuscite a immaginare un modo per impaurire le persone, potete fargli fare quello che volete"). in questo caso si tratta però di una parafrasi, quel responsabile di orrori senza fine parlava della guerra e la frase era molto più sfumata.


Questo per non dire di un decalogo “contro la manipolazione” attribuito allo studioso di linguistica e attivista di sinistra Noam Chomsky contenente la storia della rana bollita, o di un presunto proverbio turco sulla gente che sceglie di votare per le asce furbe, che la convincono che il manico è di legno, in realtà rielaborazione di motivi favolistici antichi dell’Asia occidentale (che non c’entrano nulla col consenso elettorale moderno ai governi che impongono misure anti-Covid).


In questo universo neo-letterario, abbiamo selezionato per voi tre esempi.



George Orwell, 1984

All’infuori del lavoro tutto era vietato: camminare per strada, distrarsi, cantare ballare, riunirsi…

1984: la distopia per eccellenza, un libro di culto della letteratura contemporanea, ispirato nel 1949 a Orwell dal suo orrore per la tirannia appena finita, quella del nazismo, e a quella che, a partire dall’Unione Sovietica di Stalin, incombeva, il comunismo.


Gli "apocalittici del coronavirus" amano autori come Orwell, perché il mondo che disegnava gli appare lo stesso delle misure di contenimento contro il virus Sars-CoV-2.


C'è un piccolo prpblema: la frase che vedete sopra non è presente (né in quella forma, né in forme simili) nelle traduzioni italiane del romanzo di Orwell. Come si suol dire, è troppo bella per essere vera: proprio la sensazione che si prova, di solito, quando ci si imbatte in una leggenda contemporanea. Anche per questo suo calzare a pennello, si è prestata ad essere utilizzata, proprio di recente, da fonti di orientamento culturale diverso fra loro. Non ne troviamo versioni “pre-covid”: per quanto ci è possibile capire, le sue prime apparizioni in rete risalgono alla prima metà di settembre.


Se il 12 settembre compare sulla pagina Facebook di un’erboristeria romana che promuove medicina alternativa ed idee new age, il 26 dello stesso mese viene usata da un fotografo professionista di Benevento, in modo forse più neutro, per spiegare il suo intento di fermare nel tempo le immagini del periodo più duro del lockdown primaverile.


Da metà settembre, la pseudo-frase è comparsa parecchie volte sotto forma di commento ad articoli sull’epidemia, su pagine Facebook e sui social più vari, sempre uguale, ma di solito con l’intento più o meno inespresso di attaccare le misure pubbliche contro la diffusione del coronavirus. Una delle caratteristiche frequenti delle pseudo-citazioni è infatti la loro lapidarietà, ossia l’idea che possano “parlare da sé”, senza bisogno di essere commentate. Per chi si oppone alle misure di contenimento, la nostra società è Orwell realizzato, senza se e senza ma. Non pensiate che si tratti di una convinzione di fasce marginali della società: a fine settembre l’ex-ministro britannico per la Brexit, Steve Baker, è stato visto a Westminster, sede del parlamento, con addosso una t-shirt con la scritta 2020 is the new 1984.



Carl Gustav Jung, Il libro rosso

[...] Mi ero privato di cibi succulenti, di tante bottiglie di rum, di bestemmie ed imprecazioni da elencare davanti al resto dell’equipaggio. Mi ero privato di giocare a carte, di dormire molto, di oziare, di pensare solo a ciò di cui mi stavano privando”.
“Come andò a finire, Capitano?”
“Acquisii tutte quelle abitudini nuove, ragazzo. Mi fecero scendere dopo molto più tempo del previsto”.
“Vi privarono anche della primavera, ordunque?”
“Sì, quell’anno mi privarono della primavera, e di tante altre cose, ma io ero fiorito ugualmente, mi ero portato la primavera dentro, e nessuno avrebbe potuto rubarmela più”.

Il Libro rosso, o Liber Novus, venne completato dal fondatore della psicologia analitica nel 1930, ma pubblicato in edizione critica soltanto nel 2009. Frutto di una crisi psichica profonda e violenta, testimonia - se non altro - l’altissimo livello di creatività artistica dello psicologo. Le innumerevoli, incredibili rappresentazioni grafiche (opera dello stesso Jung, e che si fondono in maniera visionaria col testo manoscritto) negli ultimi dieci anni sono diventate oggetto di una vera e propria venerazione da parte degli appassionati del personaggio e degli storici dell’arte.


La comparsa di una pseudo-citazione junghiana in tempo di coronavirus non stupisce; ma sembra evidente che il lungo testo era stato pensato per un pubblico colto: anche per la lunghezza, non si presta certo a trasformarsi in meme su Instagram o a commenti in coda ai siti dei quotidiani. Racconta l’immaginario colloquio fra un mozzo (figura che rappresenta il discepolo) e il capitano-maestro, cui è chiesto di raccontare come avrebbe reagito nel caso di progressive, lente ma inesorabili misure di limitazione della libertà e dei propri beni. Anche stavolta l’analogia, seppur meno violenta di quella dello pseudo-Orwell, è scontata: la tortura del lockdown è progressiva, quotidiana e priva di fretta: solo la fortezza interiore in cui si ritrova la figura del “capitano” può sottrarvisi, ed uscirne integro.


Un testo così lungo e complesso prevede di norma un autore “vero”, qualcuno che l’abbia scritto, sostituendosi a Jung, in modo consapevole e forte, e dunque più facilmente individuabile. E così è stato. "Il marinaio e il mozzo" comparve in rete intorno al 12 marzo scorso in un post dello scrittore new age Alessandro Frezza e subito diventò virale; l'autore stesso, pochi giorni dopo averlo pubblicato, ne chiarì al meglio l’intento letterario: scrivendolo, intendeva dedicarlo a Jung, uno dei suoi ispiratori ideali. Poi il post venne ripreso dalla pagina Facebook “Il libro rosso di Jung” che, senza averne l’intenzione, portò parecchi ad equivocare e ad attribuire così, in modo diretto, a Jung quello che era invece l'omaggio di un suo ammiratore.



La lettera di Francis Scott Fitzgerald durante la pandemia di spagnola

Zelda e io abbiamo fatto scorta di vino rosso, whisky, rum, vermouth, assenzio, vino bianco, sherry, gin e, Signore, e se ne avremo bisogno, del brandy. Per favore, prega per noi.

Di che cosa poteva far scorta, agli inizi del Proibizionismo, l’autore di Tenera è la notte e Il Grande Gatsby, se non di liquori di ogni sorta? Beh, questo è quello che avrebbe fatto Fitzgerald in quarantena nel sud della Francia, nel 1920, a causa della terribile influenza spagnola. Questo, almeno il contenuto di una presunta “lettera” che avrebbe scritto indirizzandola a Rosemary (la protagonista di Tenera è la notte, ma che nel 1920 lo scrittore non aveva nemmeno lontanamente concepito).


Nel marzo scorso il testo della lettera o stralci di essa si sono diffusi in rete, come esempio di un modo scapestrato di reagire allo stress imposto dal covid.


Beh, anche questa - proprio come la parabola del Libro rosso junghiano, era frutto di un’invenzione, stavolta non a fini celebrativi, ma satirici. Ne è autore l’umorista americano Nick Farriella, e comparve la prima volta il 13 marzo sul sito mcsweeneys.net. Già pochi giorni dopo, sia negli Stati Uniti, sia altrove - Italia compresa - la natura apocrifa della missiva era stata chiarita, ma inutilmente. Come la parabola di Jung e l’ammonimento cupo di Orwell anche questa è, con ogni probabilità, destinata a diventare leggenda imperitura - o quasi.


Tutte e tre, insieme ad altre, testimoniano la nostra capacità di reagire in modo narrativo e - alla lettera - leggendario a una crisi generale, ognuno sperando o temendo di doversi identificare nel ruolo di uno dei protagonisti: lo schiavo del sistema totalitario, incapace di sottrarvisi, il superuomo che nel castello interiore ritrova la propria primavera (e che nessuno può sottrargli), o il moderno decadente il cui paradiso è la costa francese, dove si inebetisce con l’alcool e le donne.


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