di Sofia Lincos
Carmen Maria Machado è una scrittrice statunitense tra le più interessanti del panorama contemporaneo. Femminista, queer, di discendenza cubana, ha vinto numerosi premi letterari grazie ai suoi racconti che fondono generi come l’horror, il fantastico e la fantascienza.
Oggi vorremmo parlarvi di uno di questi, The Husband Stitch, pubblicato nel 2014 e inserito nel 2017 nella raccolta Her Body and Other Parties; in Italia il libro è uscito nel 2019, edito da Codice, come Il suo corpo e altre feste. The Husband Stitch è il racconto di apertura e rappresenta forse - nell’opinione di chi scrive - uno dei più riusciti usi letterari delle leggende contemporanee.
Queste, infatti, costituiscono l’ossatura del racconto, a cominciare dal titolo stesso, almeno nell’originale inglese. È un peccato che The Husband Stitch sia stato tradotto da noi come Il nastro , forse immaginando che il lettore italiano non avrebbe potuto cogliere l’allusione. Per un lettore americano - e ancor più per una lettrice - il riferimento invece è chiarissimo. Il “punto del marito” è una procedura chirurgica non necessaria che verrebbe praticata ad alcune donne in seguito al parto: la chiusura del tratto vaginale con “un punto di sutura in più”, allo scopo di aumentare il piacere del partner durante i rapporti, spesso su richiesta del compagno stesso della donna. Un esempio è quanto riportato dalla rivista medica Transactions of the Texas State Medical Association del 1885:
Il Dottor. G. Cupples fu chiamato a spiegare il 'punto del marito', e lo fece come segue. Disse che quando stava ricucendo un perineo lacerato di una donna sposata, il marito osservava con ansia e interesse, e dopo che egli ebbe messo tutti i punti necessari, il marito gli sbirciò di sopra la spalla e gli disse: "Dottore, non può mettere un altro punto?" ed egli lo fece, e lo chiamò il 'punto del marito'.
Negli ultimi anni, il “punto del marito” è stato oggetto negli Stati Uniti di discussioni accesissime, tra chi relegava la pratica al rango di leggenda metropolitana e chi la considerava una prassi comune. Mancano, al momento, studi che permettano di chiarirne l’effettiva diffusione. Nel racconto, il “punto del marito” è inserito in un discorso più ampio sul corpo delle donne e sul suo controllo da parte degli uomini.
Ma non è solo il titolo a richiamare da vicino una pratica al confine tra realtà e immaginario. Le leggende contemporanee fanno infatti parte della trama a diversi livelli: tanto per cominciare, affiorano già nella struttura del racconto. Il nastro si presenta infatti come un testo da leggere ad alta voce, quasi come se fosse una di quelle storie “da campeggio”, da dirsi l’uno con l’altro accanto al fuoco. Per questo, include diversi consigli di “interpretazione”, fin dall’incipit:
Se leggete questa storia ad alta voce, per favore usate le seguenti voci:
Me: da bambina, acuta, ordinaria; da donna, la stessa.
Il ragazzo che diventerà uomo, e poi il mio sposo: vigorosa con fatalismo.
Mio padre: gentile, tonante; come vostro padre, o l’uomo che avreste voluto come padre.
Mio figlio: da piccolo, delicata, con un impercettibile difetto di pronuncia; da adulto, come mio marito.
Tutte le altre donne: intercambiabili con la mia.
Le leggende metropolitane, poi, hanno strettamente a che fare anche con la trama. Il racconto ricalca infatti la storia della donna con il nastro al collo, un classico in circolazione almeno dal XVIII secolo. Una delle versioni più celebri è costituita da un racconto del 1824 di Washington Irving (1783-1859), L'avventura dello studente tedesco. In questo caso siamo a Parigi ai tempi della Rivoluzione francese; un giovane incontra una donna in Place de Grève, la piazza delle esecuzioni durante il Terrore. La ragazza è rannicchiata ai piedi del patibolo, pallida, e ha una fascia di velluto nero intorno al collo. Lo studente tedesco le chiede se può accompagnarla a casa; lei risponde che non ha un posto dove andare, né amici… Il giovane si commuove, le offre il suo appartamento, e nel corso della serata le confessa di essersi innamorato di lei. Il giorno seguente va a cercare una nuova abitazione adatta ad ospitarli entrambi. Ma quando torna, la sua futura sposa è sul letto, esanime. Il poliziotto arrivato per constatarne il decesso la riconosce: si tratta di una delle giustiziate che sono state ghigliottinate il giorno prima. E sciogliendo il nastro che la donna porta intorno al collo, la sua testa rotola a terra…
Se il racconto di Irving è interamente incentrato sullo studente, sul suo orrore nello scoprire la natura della donna di cui si è innamorato, la sua psicologia, quello di Carmen Maria Machado si focalizza sulla protagonista femminile. Tutta la storia (dall’infanzia al tragico epilogo) è raccontata dal punto di vista di lei, la donna con il nastro al collo. Che non è un demone o un revenant, ma una donna comune, come tante altre; anzi, nel racconto, ogni donna ha il suo nastro, di colore diverso o annodato in una parte differente del corpo, mentre nessuno degli uomini ce l’ha. Questo particolare, unito al fatto che la vicenda è trasportata nel presente, danno all’intera storia un sapore universale, rendendo di fatto il nastro un simbolo dell’esperienza stessa del femminile (“la voce delle altre donne… intercambiabili con la mia”).
In terrazza lo bacio. Lui risponde, delicatamente all’inizio ma poi con più forza, mi apre anche un poco la bocca con la lingua, e la cosa stupisce me e forse anche lui. Ho immaginato molte cose al buio, nel mio letto, sotto il peso della vecchia trapunta, ma questo mai, e mi lascio sfuggire un gemito. Quando si stacca da me, sembra sorpreso. Il suo sguardo guizza intorno per un istante prima di posarsi sulla mia gola. «Cos’è?» chiede.
«Oh, questo?» Tocco il nastro dietro al collo. «È il mio nastro.» Passo le dita sul lucido tessuto verde e lascio che si posino sul fiocco compatto.
Quando lui allunga la mano, la prendo e la spingo via. «Non devi toccarlo» dico. «Non puoi.»
Prima di rientrare, mi chiede se possiamo rivederci.
Il terzo modo con cui le leggende metropolitane entrano nel racconto è costituito dalle miriadi di riferimenti più o meno diretti che ne punteggiano la trama. Machado inserisce nel testo esempi classici, come il fidanzato impiccato, l’uomo con l’uncino, i sadici di Halloween, la sposa nella cassapanca, la donna scomparsa dalla camera d’albergo... Qui, l’universo narrativo di riferimento è quello di Scary Stories to Tell in the Dark, di Alvin Schwartz, che comprende le leggende più note al pubblico americano. Eppure, anche così, la scrittrice riesce spesso a dare una chiave di lettura originale a queste storie, spingendo il lettore a guardarle da un’angolazione inconsueta, o a ricavarne una morale diversa da quella più facilmente ricavabile. Prendiamo ad esempio la vicenda del vestito avvelenato, che la protagonista di The Husband Stitch racconta così:
Quando scelgo l’abito, mi viene in mente la storia della ragazza che voleva andare a ballare con il suo amore, ma non poteva permettersi un vestito adatto. Aveva comprato un meraviglioso vestito bianco in un negozio di seconda mano, e poco dopo si era ammalata e aveva lasciato questa terra. Il medico che l’aveva visitata negli ultimi giorni scoprì che era morta per essere entrata in contatto con un fluido da imbalsamazione. In pratica, il disinvolto impiegato di un’impresa di pompe funebri aveva sottratto il vestito dal cadavere di una sposa.
Fin qui la leggenda segue il canovaccio classico. Ma la chiosa è abbastanza diversa da quella che ci si potrebbe aspettare:
La morale della storia, secondo me, è che essere poveri alla lunga ti uccide.
Oppure, ecco la storia del fantasma che torna a riprendersi il suo fegato nella versione di Machado:
Una delle mie storie preferite racconta di una donna e suo marito, un uomo brutto come un lunedì, che la terrorizzava con un carattere violento e capricci volubili. Lei riusciva a placarlo solo con la cucina, di cui lui era completamente schiavo. Un giorno l’uomo aveva comprato un bel fegato grasso e lei l’aveva cotto con erbe e brodo. Ma il profumo di quella delizia l’aveva travolta, e un assaggio era diventato parecchi bocconi e ben presto il fegato era finito. La donna non aveva soldi per comprarne un altro ed era terrorizzata dalla reazione del marito quando si fosse accorto che la cena era sparita. Così era entrata di soppiatto nella chiesa accanto alla loro casa, dove era stata composta da poco la salma di una donna. Si era avvicinata alla sagoma avvolta nel sudario, aveva tagliato la stoffa con un paio di forbici da cucina ed estratto il fegato dal cadavere. La sera, il marito si era pulito la bocca con il tovagliolo e aveva dichiarato che quella era stata la cena migliore della sua vita. Quando erano andati a dormire, la donna aveva sentito la porta aprirsi e un grido sottile diffondersi nelle stanze. Dov’è il mio fegato? Dov’è il miooooo fegatooooo? La donna aveva sentito la voce avvicinarsi alla camera da letto. La porta si era spalancata con un fruscio. La morta aveva ripetuto la domanda.
A quel punto la donna aveva strappato la coperta di dosso al marito.
«Ce l’ha lui!» aveva dichiarato con aria trionfale.
Fin qui, la storia segue strettamente la trama seguita da Alvin Schwartz nel terzo e ultimo volume della serie di Scary Stories to Tell in The Dark (More Tales To Chill Your Bones, 1991). Ma Machado non si accontenta di ripeterla, e perciò prosegue così:
Poi, guardando bene il viso della morta, aveva riconosciuto i propri occhi e la propria bocca. Si era guardata la pancia, e le era venuto in mente come aveva inciso l’addome della salma. Aveva cominciato a sanguinare copiosamente nel letto, e mentre moriva aveva bisbigliato qualcosa, cosa non lo sapremo mai. Vicino a lei, man mano che il sangue impregnava il centro del materasso, suo marito dormiva della grossa. Forse non è la versione della storia con cui avete più familiarità. Ma datemi retta, è l’unica che dovete sapere.
Carmen Machado sembra consapevole della ragione per cui continuiamo a raccontarci, da secoli, le leggende metropolitane: sono un modo per comunicare, per trasmettere storie esemplari, per delineare una morale comune. Sono in qualche modo “storie vere”, non perché lo siano davvero, ma perché trasmettono qualcosa che per chi racconta lo è.
In molte narrazioni, si tratta di una morale conservatrice, in cui la donna che sfida gli uomini e le convenzioni sociali rischia sempre di fare una brutta fine. Machado, invece, usa queste storie per parlare di che cosa significa essere una donna, del corpo trattato come proprietà maschile anche da uomini che non sono “affatto cattivi” e dell’importanza di essere credute anche quando si racconta una storia. Insomma, uno “sguardo al femminile” e originale sul panorama delle leggende metropolitane, che di sicuro piacerà agli appassionati (e alle appassionate) del genere.
Immagine in evidenza: L'autrice di The Husband Stitch. Immagine di Carmen Maria Machado, rilasciata in licenza CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons
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